Pierre Lévy e Stefano Rodotà: la rivoluzione informatica e la democrazia

In questa puntata discutiamo di “Il Virtuale” di Pierre Lévy e di “Tecnopolitica” di Stefano Rodotà.

Pierfranco Pellizzetti

«Un ambiente di realtà virtuale è immersivo, interattivo e
generato da un computer. L’essere generati da un computer
rende questi ambienti virtuali. L’essere immersivi rende la
nostra esperienza quantomeno simile alla realtà ordinaria»[1].
David J. Chalmers

«Spesso la gente parla di un dualismo: il mondo virtuale e
le nostre vite reali. Dopo che mi è stata sottratta l’identità
digitale posso assicurarvi che non sono separati».[2]
Christopher Wylie

Pierre Lévy, Il Virtuale – la rivoluzione digitale e l’umano, Meltemi, Milano 2023
Stefano Rodotà, Tecnopolitica, Laterza, Roma/Bari 1997

Il reale visto dalla rive gauche
Tony Judt, nella sua qualità di storico del passato-presente (a differenza dei suoi colleghi, generalmente al lavoro sul passato-passato e relative archeologie) ci aveva messo in guardia, suggerendo di non farci troppo abbagliare dal ruolo svolto nel Novecento dall’intellighenzia parigina, non di rado brillante a scapito della profondità, e le sue istrioniche star; pirotecnici funamboli: «dai tempi di Napoleone la Francia si era dimostrata impermeabile a qualsiasi influenza straniera, fatta eccezione per la filosofia romantica tedesca. Se questo era vero nel 1957, non lo era meno di due decenni dopo. Mentre le sensibilità umanistiche della generazione precedente erano state attratte da Marx e da Hegel, l’insicura generazione degli anni Settanta fu sedotta da una corrente nettamente più cupa del pensiero tedesco. Lo scetticismo radicale di Foucault era in gran parte un semplice adattamento della filosofia di Nietzsche, Altri influenti autori francesi s’ispiravano invece a Heidegger per la loro critica alla mediazione umana e la loro opera di ‘decostruzione’ del soggetto cognitivo […]. Nuovi e celebratissimi teorici come Lacan e Derrida elevarono le stravaganze e i paradossi del linguaggio allo status di vere e proprie filosofie, perfettamente flessibili a qualsiasi tipo di spiegazione testuale e politica»[3].

Questi acrobati semantici, a fronte della rivoluzione informatica in avanzata dal secondo Novecento analizzano il virtuale – in quanto aggettivo – quale sinonimo di perdita della realtà: Jean Baudrillar come simulazione “iper-reale”; Paul Virilio come compressione spazio-temporale indotta, non solo dalla rivoluzione logistica, ma anche dal face-to-face consentito dalle tecnologie della comunicazione e dalla creazione di dispositivi “indossabili” come una seconda pelle. Il mondo avvolto da una rete informazionale che annulla le distanze nel tempo zero. Mentre Lévy – nel suo virtuale come sostantivo – nega la dissoluzione del reale e l’identificazione dell’in nuce con il falso. Sulla scia di Gilles Deleuze, che nella attribuzione di statuto ontologico propone di sostituire la coppia contrapposta di reale-virtuale con quella attuale-virtuale; in cui entrambi sono reali in un permanente processo di passaggio dal potenziale al realizzato. Dall’ontologico al psicologico. Quanto Lévy precisa nella prefazione all’odierna riedizione italiana del suo saggio che risale al 1995: «la nozione di virtuale può essere compresa solo nella sua opposizione dialettica all’attuale, in quanto ciascuno dei due concetti rappresenta uno dei poli complementari di uno stesso ciclo» (P.L. pag. 11). Dunque, tale nozione assume caratteristiche che il linguista definirebbe “performative” (attivazione di comportamenti), lo scolastico aristotelico “dynamis” (la potenzialità dell’in nuce) e il politologo “progettuali” (costruttivistiche). Tuttavia – a questo punto – il sentiero intellettuale di Lévy diverge da quello di Deleuze orientato verso il post-umanesimo del trans-umano, propugnando un nuovo umanesimo: l’interazione tra attale e virtuale non è perdita di realtà ma la sua problematizzazione. Il nuovo passaggio evolutivo dell’umanità promosso dalla rivoluzione informatica, iniziata negli anni Cinquanta del secolo passato e tuttora in corso, centrata sulle tecnologie dell’informazione. Un salto genetico non più biologico, ossia quanto verificatosi nel percorso dall’ominide al sapiens, bensì culturale. La formazione di un’intelligenza collettiva, definita “noolitico” da Lévy nell’omonimo saggio sull’antropologia del cyberspazio del 1994[4]; successivamente specificata nel rapporto a quattro mani con lo storico della scienza Michel Authier sugli “alberi di conoscenza”: «si potrebbe battezzare noolitico il periodo che si apre ai giorni nostri. Questo neologismo è formato a partire dalla radice greca nous, mente, e lithos, pietra, dove la ‘pietra del sapere’ non è ovviamente più la selce della preistoria bensì il silicio dei semiconduttori e delle fibre ottiche»[5].

La costruzione sociale del mondo
Mentre gli apocalittici teorizzavano il progetto transumanista, termine coniato nel 1927 dallo scienziato inglese Julian Huxley, e nel 1950 Norbert Wiener, padre della cibernetica, ammoniva che se volevamo rimanere una specie capace di autonomia dovevamo trasformare deliberatamente noi stessi («abbiamo modificato il nostro ambiente in maniera così radicale che ora dobbiamo modificare noi stessi per sopravvivere in questo nuovo ambiente»[6]); già tre decenni fa Lévy propugnava il progetto umanissimo del passaggio dal cogito al cogitamus[7]. Per cui, «di fatto, il punto ideale dell’informatica non è più l’intelligenza artificiale (rendere le macchine altrettanto, anzi più, intelligenti dell’uomo), ma l’intelligenza collettiva, vale a dire la valorizzazione, l’utilizzazione ottimale e la messa in sinergia delle competenze, delle immaginazioni e delle energie intellettuali, qualunque sia la loro diversità qualitativa e ovunque si situi»[8]. Questo è quanto scriveva nel 1997, cui oggi aggiunge, prefacendo la nuova edizione de “Il Virtuale”: «dietro la ‘macchina’ dobbiamo vedere l’intelligenza collettiva che essa rettifica e mobilita» (P.L. pag. 21). Sicché «le nostre società si coordinano per il tramite di un mondo virtuale di significati che le nostre menti abitano in condivisione, mentre i nostri organismi interagiscono attualmente con il mondo fisico» (P.L. pag. 17). Un appello umanistico intrigante quanto misterico – da vero fumatore di papier mais al tavolino di un café a Saint-Germain-des-Prés – che forse riusciamo a capire meglio attraverso quanto scritto un decennio dopo da un filosofo della mente e del linguaggio, l’americano John Searle; meno suggestivo ma assai più comprensibile: «Stato, governo, denaro, mercato, tasse, contratti (da quelli d’affitto a quelli di matrimonio), ma anche cocktail party, partite di calcio, vacanze organizzate o associazioni per la difesa della birra ben mescolata: di questo e altro è fatta la realtà in cui ci troviamo a vivere. Nessuno dubita della natura oggettiva di tali fenomeni sociali. Tuttavia, essi esistono solo perché pensiamo che esistano e perché collettivamente riconosciamo a oggetti o persone uno statuto che li abilita a svolgere funzioni altrimenti impossibili»[9]. Dunque, è questo paradosso – definibile “virtualità reale – su cui poggia il nostro mondo sociale, la cui costruzione rappresenta uno dei compiti più affascinanti per il pensiero e l’azione. In una dimensione mentale che non deve trascurare l’altro aspetto decisivo nel processo di virtualizzazione: quello corporale, su cui Lévy si sofferma diffusamente. Ossia l’estensione delle capacità sensoriali grazie ai cosiddetti apparati tecnologici “indossabili”: «il telefono per l’udito, la televisione per la vista, i sistemi di manipolazione a distanza per il tatto e l’interazione psicomotoria» (P.L. Pag. 56).

Ci addentriamo – così – in questo mix di sviluppo tecnologico e mutazioni delle mentalità indotte da smaterializzazione (spesso confusa quale sinonimo di virtualizzazione), de-massificazione e disintermediazione; quanto il sociologo anglo-polacco Zygmunt Bauman metaforizzava nell’aggettivo “liquido” – cedimento di tutte le strutture pesanti, “materiche”, di controllo – e il celebre consulente d’impresa ex McKinsey Tom Peters riduceva a battuta già nel 1992: “se puoi toccarlo non è reale”[10].
Tirando le fila possiamo dire che i cambiamenti nei rapporti di produzione, di potere e di esperienza convergono verso la trasformazione dei fondamenti materiali della vita sociale: lo spazio e il tempo. Sicché – scrive il sociologo catalano di Berkeley Manuel Castells, comunque intriso di cultura parigina in quanto a lungo assistente di Alain Touraine – «per virtualità reale intendo un sistema in cui la realtà stessa (ossia l’esperienza materiale/simbolica delle persone) è totalmente immersa in un immaginario virtuale, in un mondo di apparenze, in cui i simboli non sono soltanto metafore, ma comprendono l’esperienza concreta»[11]. In quanto le persone ormai vivono nello spazio dei flussi e nel tempo acrono.

La rivoluzione della virtualità reale
Semplificando al massimo potremmo dire che la storia narrata da Pierre Lévy ha inizio nel 700 a.C. in Grecia, con un’invenzione di fondamentale importanza: l’alfabeto e il raggiungimento della condizione mentale che l’antichista Eric Havelock ha definito “mente alfabetica”. L’infrastruttura mentale per la comunicazione delle informazioni.
Lévy aggiunge che il nuovo ordine alfabetico permetteva il discorso razionale, la virtualizzazione della memoria e «probabilmente, lo sviluppo di una tradizione critica. Infatti, lo scritto crea una distanza tra il sapere e il suo soggetto» (P.L. pag. 66). Il passaggio successivo ce lo descrive ancora Castells: «duemilasettecento anni più tardi si sta verificando una trasformazione tecnologica di proporzioni storiche simili, ovvero l’integrazione dei vari modi di comunicare in una rete interattiva. O, in altri termini, la formazione di un ipertesto e di un metalinguaggio che, per la prima volta nella storia, integrano in uno stesso sistema le modalità scritte, orali e audiovisuali della comunicazione umana. Lo spirito umano riunifica le sue dimensioni in una nuova interazione tra i due lati del cervello, fra le macchine e i contesti sociali»[12]. Il campo in cui si determina ciò che Lévy definisce “un processo irreversibile di creazione culturale” (P.L. pag. 114), che coincide con la rivoluzione tecnologica come pure con quella socio-economica che i francesi chiamano “mondializzazione”; e nel resto del pianeta “globalizzazione”, con l’aggiunta dell’aggettivo “finanziaria”. Ossia l’assetto nel sistema-Mondo in avvio – grosso modo – nello stesso periodo in cui veniva scritto il saggio in questione (quattro anni prima il fatidico 12 novembre 1999, quando il presidente Clinton varò il Gramm-Leach-Bliley Act che abrogava i divieti alle banche di investire in operazioni ad alto rischio; restrizioni che risalivano allo Glass-Steagall Act emanato nel 1933 dopo il crollo di Wall Street. L’inizio della finanziarizzazione del mondo). E lo storico dell’economia Giovanni Arrighi sottolineò «l’entusiasmo dell’amministrazione Clinton per i processi di liberalizzazione multilaterale degli scambi commerciali e della circolazione dei capitali che costituiscono il cuore istituzionale della cosiddetta globalizzazione»[13].

Dunque, una corrispondenza temporale – a distanza di quasi trent’anni dalla sua prima uscita – che induce a ritenere il saggio di Lévy in qualche misura datato, laddove ritiene la mondializzazione il contesto irreversibile del cyber-spazio. Infatti – come ha scritto recentemente la rivista Limes – se «la globalizzazione è l’ideologia dell’egemonia americana. Grandiosa utopia che promette di integrare il mondo nel mercato ed entrambi nell’America»[14], molti indizi lasciano inferire che siamo alla fine del secolo americano e all’avvio di una nuova transizione egemonica. In cui le tecnologie informatiche e le macchine pensanti non sono più destinate a favorire l’avvento dell’intelligenza collettiva e di un nuovo umanesimo, quanto a stabilire le nuove centralità dominanti nel sistema-Mondo. Scenario alla cui decifrazione i saperi linguistici e comunicativi risultano disarmati, se non vengono irrobustiti dalla cognizione del fattore definitivo in gioco: il potere e le tecnologie del suo addomesticamento, messe a punto dal tempo delle rivoluzioni sociali e politiche del lungo Settecento (1689-1789). Tema su cui il nostro amico Pierre zoppica un po’. Come quando si lancia a teorizzare i presunti tre tipi ideali nelle tecnologie politiche in chiave informazionale: «le famiglie, i clan e le tribù sono gruppi organici. Gli Stati, le istituzioni, le chiese, le grandi aziende , ma anche le ‘masse’ rivoluzionarie sono gruppi molari che ricorrono a una trascendenza o a qualcosa di esterno per costituirsi o mantenersi. Infine, i gruppi autorganizzati, o gruppi molecolari, realizzano l’ideale della democrazia diretta in una situazione di mutazione e deterritorializzazione»[15]. Quindi: «l’intelligenza collettiva come utopia tecnopolitica» (P.L. pg. 123). All’inseguimento del mito idilliaco di questa benedetta intelligenza collettiva (tragicamente disarmata): i “collettivi intelligenti” che governerebbe la società «a prescindere dal potere» (P.L. pag. 149). Molto Joli Mai parigino e altrettanto naif.

Motivo per cui appare necessario immergere il sogno in un bagno di realismo offerto da un pensiero altrettanto generoso quanto consapevole dei vincoli e delle poste in gioco, quale quello di Stefano Rodotà; che negli stessi anni di Lévy rifletteva sul tema della democrazia alle prese con le nuove tecnologie della comunicazione. Intravvedendo già allora il rischio di una società della sorveglianza totale (“Orwell che abita ad Atene”). E ancora oggi le sue riflessioni appaiono la risposta diretta alla naïveté parigina: l’irruzione di una “democrazia continua” che svuota tanto lo schema democratico, sia “rappresentativo” che “diretto”, per cui «la profezia heideggeriana dell’avvento di una tecnica portatrice d’una sua logica irresistibile appare incarnata nelle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, che avanzano cancellando tutto». Tra i timori per il radicarsi della democrazia plebiscitaria e le speranze nell’avvento di una democrazia “deliberativa” (S.R. pag. 5). A fronte della riduzione del consenso democratico in applausometro e la sua manipolazione attraverso la cosiddetta sondaggiocrazia. La post-democrazia («le elezioni diventano gare attorno ai marchi, anziché opportunità per i cittadini di replicare ai politici»[16]) che scivola in democratura (la combinazione di democrazia formale e autoritarismo sostanziale in funzione già nei Paesi post-comunisti a Est e in via di recezione anche a Ovest[17]).
A fronte di queste minacce incombenti il saggio di Rodotà è un’ampia rassegna delle possibili terapie per la democrazia malata; dalle campagne d’ascolto secondo le modalità dei deliberative polls messi a punto dal politologo James Fishkin (S.R: pag. 109) alla riscoperta della dimensione civica per la sperimentazione di una più estesa partecipazione (S.R. pag.131); nuove normative in materia di privacy «come precondizione della cittadinanza nell’era elettronica» (S.R. pag. 153) e la creazione di reti civiche per il controllo delle scelte amministrative. Una lezione di sana militanza democratica che non deve andare perduta. «Il realismo vuole che non si coltivino illusioni ingannevoli, che non si frequenti il futuro immaginando che la macchina di un progresso sempre benefico sia di nuovo in movimento. Ma il futuro deve essere progettato senza rassegnazioni, o rinunce precoci. Bisogna essere sempre guidati dall’ambizione della pienezza democratica, misurando su questa le istituzioni della nuova città e l’estensione della cittadinanza» (S.R. pag. 169)
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[1] D. J. Chalmers, “La realtà del virtuale”, MicroMega 3/2022

[2] C. Wylie, Il mercato del consenso, come ho creato e distrutto Cambridge Analytica, Longanesi, Milano 2020 pag. 280

[3] Tony Judt, Postwar, Laterza, Roma/Bari 2017 pag. 594

[4] P. Levy, L’intelligenza collettiva – per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996 pag. 146

[5] M. Authier e P. Levy, Gli alberi di conoscenza, Feltrinelli, Milano 2000 pag. 91

[6] Cit. in Paul Mason, Il futuro migliore, il Saggiatore, Milano pag. 202

[7] P. Lévy, L’intelligenza collettiva, cit. pag.37

[8] P. Levy, Cybercultura – gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1997 pag. 163

[9] John R. Searle, Creare il mondo sociale, Cortina Editore, Milano 2010 quarta di copertina

[10] Tom Peters, Liberation management, Sperling & Kupfer, Milano 1992 pag. 8

[11] Manuel Castells, Volgere di millennio, Università Bocconi Editore, Milano 2003 pag. 419

[12] Manuel Castelles, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 380

[13] Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007 pag. 214

[14] Lucio Caracciolo, “L’importanza di non essere globali”, Limes 3/2023

[15] P. Lévy, L’intelligenza collettiva, cit. pag. 64

[16] Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003 pag. 116

[17] Ivan Krastev e Stephen Holmes, La rivolta anti liberale, Mondadori, Milano 2020 pag. 122

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