“Piove”: un bel film politico italiano ed europeo, ingiustamente censurato

Al Festival di Strasburgo, dove il film è stato presentato, le domande dei giornalisti si sono concentrate sul significato squisitamente politico del racconto. A dimostrazione che l’horror si conferma il genere più adatto, oggi, a narrare le contraddizioni presenti nel tessuto sociale.

Flavio De Bernardinis

Realizzato dai giovani Paolo Strippoli, regista; Jacopo Del Giudice, soggettista; Cristiano De Nicola, direttore della fotografia, in coproduzione con il Belgio, costato molto meno di quello che appare sullo schermo, Piove è un film talmente politico che la censura italiana lo fa uscire con il divieto ai minori di anni 18.

Ambientato in una Roma periferica emblema di tutte le periferie, figura desolata del pianeta intero, Piove si concentra su un nucleo famigliare, padre e due ragazzi, che tenta di sopravvivere alla tragica scomparsa della madre, vittima di un incidente stradale che ha inoltre privato dell’uso delle gambe Barbara, la figlia più piccola. Il figlio maggiore, Enrico, finge di andare a scuola per abbandonarsi invece tra le braccia di una prostituta che amorevolmente lo solleva dalle pene (ma puntualizza: “Non sono io quella che cerchi”). Il padre, Thomas, fa l’autista privato, e cerca in tutti i modi di badare a casa e figli, pulendo e cucinando, come può. Entrambi sono rosi dal rancore per ciò che è sciaguratamente accaduto.

Si capisce, piano piano, che la morte della madre nasconde delle responsabilità, certo indirette e persino fortuite, che pesano più di quelle eventualmente premeditate. Opprimono, perché si aggiungono a una fatica di vivere che non conosce sollievo, dentro una società metropolitana degradata, chiusa in se stessa, schiava dei social media, vittima di una violenza verso tutto e tutti, nella sordida latitanza di qualsiasi forma di compassione.

Poi ci sta la pioggia. Mentre l’aridità di Virzì (Siccità) è implosiva, come il film stesso, qui i temporali improvvisi sono la figura di una collettività che sta esplodendo sotto i colpi delle rabbie accumulate e represse. Non solo Enrico e Thomas vivono nel risentimento permanente verso la vita, ma l’intero corpo sociale è pervaso da un rancore generalizzato, un bisogno di accusare l’altro e accusare se stessi, a ripetizione, che è cifra di un disagio sociale acutissimo e di una impotenza dichiarata della sfera politica.

Lo Stato, pur presente nella veste degli assistenti sanitari che provvedono alla rieducazione motoria della bambina, non sa spingersi là dove un dolore che sa di marcio imperversa. I segni di un Welfare che non c’è più sanno di rottami e residui, come una piscina pubblica abbandonata che una guardia giurata deve sorvegliare non si sa perché, come badando a un cadavere in decomposizione.

Nel film la televisione è quasi assente (ma si vede un Tg dove campeggia in basso una didascalia con un grossolano errore di grammatica), ed è questo, forse, il vero orrore. Scomparso il fondo sonoro della tv, infatti, non si scopre il suono dell’umanità ritrovata: dal vuoto che emerge improvviso, si percepiscono invece assurdi rumori e suoni, strani e inquietanti messaggeri di una dimensione oscura e tenebrosa, che fa pensare persino a Lovecraft.

A tale proposito, si è parlato di horror dei sentimenti, in quanto la pioggia del titolo, che si raccoglie al suolo, poi si infanga nelle cloache, quindi evapora da lavandini e tombini, e infine, completando il ciclo, torna a precipitare dall’alto, è figura del rancore e del risentimento di una società che ha perso qualsiasi stimolo al fervore individuale, e dunque alla coesione sociale. Questo è il dato evidentemente politico, che il film spalma sullo schermo per 90 minuti.

Anche se i riferimenti ai classici americani sono riconoscibili, in particolare i tombini mostruosi di IT, da Stephen King, e la violenza famigliare di Shining, sempre King ma “tradito” da Kubrick, Piove conserva una sua europea e specifica originalità, che se da un lato può rammentare lo stile visivo di Lars Von Trier, d’altro canto rimanda ai primi romanzi di Alexander Stuart, Zona di guerra e Tribù, dove la provincia e la metropoli inglesi sono il teatro destinato a marcire di uno strazio in cui il femminile, esattamente come nel film di Strippoli, resta l’unico enigma ancora fruibile. La piccola Barbara, infatti, l’unica ad accettare la sofferenza come tale, sarà la sola a resistere e respingere l’orrore dei sentimenti, attraverso la distinzione salutare tra “odio” e “rancore”. Qualcosa di simile anche nell’altro bellissimo “horror dei sentimenti” islandese dell’anno scorso, Lamb, con Noomi Rapace protagonista, il cui finale può ricordare questo di Piove.

Resta da chiedersi il perché del divieto ai minori di anni 18. La motivazione del censore recita così: in ragione della presenza di scene estremamente cruente, che rappresentano atti violenti in modo dettagliato e prolungato, inducendo nello spettatore uno stato emotivo di turbamento. Tali scene, singolarmente prese, sono di per sé sufficienti a giustificare il divieto.

Il divieto quindi si fonda su scene “singolarmente prese”, estrapolate dal contesto e sganciate dal senso complessivo della narrazione. Qualcuno si deve essere accorto della puerilità appena menzionata tanto che di seguito infatti si legge: esse [scene] risultano punteggiare la trama in modo tale da conferire alla pellicola un tono complessivo che lo rende inidoneo alla visione da parte di spettatori minorenni.
Credo sia inutile che chi scrive dichiari che una mostra di “atti violenti dettagliati e prolungati” non esista nel film: sono valutazioni che ciascun spettatore tara in riferimento alla propria sensibilità. Molti thriller action, accessibili a tutti, non vietati, esibiscono efferatezze più particolareggiate e continue di quelle mostrate in questo film (pensiamo ai film con Liam Neeson nelle vesti del vendicatore).
In Piove, quindi, non è tanto la crudeltà compiaciuta di singole scene, che non c’è, ma il quadro generale di riferimento a fare la differenza, ossia la condizione sociale contemporanea di un ceto popolare, sotto impiegato, abbandonato a se stesso, e che a propria volta, per rancore indotto, si abbandona. Questo è il cruccio del censore, il divieto ai minori di 18 anni: la moltitudine contemporanea, erede della folla e della massa, preda di una solitudine e di un rancore che rimandano a precise responsabilità politiche e sociali.
Tutti i femminicidi, i parenticidi, le morti sul lavoro, le vittime della strada, le violenze sui più deboli e indifesi che qualsiasi Tg snocciola come fosse il bollettino meteorologico in ogni tipologia di fascia protetta, qui vengono contestualizzati quali sintomi di una malattia istituzionale che nega al cittadino, al di là della giustizia sociale, anche il sollievo dei sentimenti, i quali sono dannati all’orrore del fango e della pioggia, come tutto il resto.
Oggi l’Italia midcult si raggomitola ne La stranezza, plaudente e timorosa, addosso alla figura di un Pirandello riletto da Sciascia ormai fuori tempo massimo, facendo ancora staccare biglietti al botteghino in sala. Facile a intendersi, il piccolo caso. Mentre i professionisti dell’intrattenimento “colto” e “museale” consolano e rassicurano sul buon tempo che fu, in Piove un pugno di giovani cineasti punta il dito sull’horror tempo che sta, e suona l’allarme.
Per reazione, immediatamente, li vietano.

 



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