I sindacati chiedono più confronto e meno decreti

I sindacati della scuola criticano il ricorso al decreto Legge per intervenire in un comparto già in sofferenza come quello dell’istruzione pubblica.

Rossella Benedetti e Carlo Scognamiglio

Con il documento che annuncia l’avvio dello stato di agitazione e mobilitazione, i sindacati della scuola firmatarie del Contratto nazionale (CGIL, CISL, UIL, SNALS, GILDA) segnalano una questione di notevole interesse politico e culturale. Al di là delle diverse considerazioni di merito, che pure si potrebbero sviluppare intorno al recentissimo decreto approvato dal governo in relazione ai sistemi di reclutamento e formazione in servizio degli insegnanti, nonché sulle sue “coperture” economiche, le organizzazioni sindacali testimoniano il proprio disappunto per quello che appare loro come un disinvolto ricorso al dispositivo giuridico del Decreto Legge, che si adopera per intervenire in modo talvolta traumatico in un comparto già in sofferenza, come quello dell’istruzione pubblica. E tali incursioni in molti casi non discendono da un processo di condivisione e analisi con le parti sociali, ma ridefiniscono addirittura alcuni aspetti dei rapporti di lavoro che sarebbero oggetto di contrattazione, con l’effetto di neutralizzare di fatto il peso delle organizzazioni sindacali nelle dinamiche di costituzione e riforma delle regole e di funzionamento della vita lavorativa. Tutto ciò accadrebbe, seguendo i toni e i contenuti del comunicato sindacale, “in presenza di un’annosa e irrisolta questione retributiva che riguarda tutto il personale della scuola”.

Senza aprire questo ulteriore capitolo problematico, si può osservare che il vero tema implicito della dichiarazione di stato d’agitazione formulato dai sindacati della scuola è un altro, ed eccede anche il solo comparto dell’istruzione, coinvolgendo l’intero pubblico impiego, imponendo una riflessione più generale.

Chi lavora alle dipendenze dell’amministrazione o dei servizi pubblici viene spesso gratificato del titolo di “servitore dello Stato”, nel senso di colei o colui che “per deferenza, per devozione o per interesse è pronto a adoperarsi in ogni modo” per esso, in contrasto con il termine “servo”, la cui connotazione negativa è ben chiara. Tale funzione in alcuni casi si traduce in una condizione lavorativa e sociale di privilegio (si pensi ad esempio alla differenza economica e professionale tra docenti assunti come Beamte o Angestellte in Germania), intrinsecamente connessa a un rapporto di lealtà che prescinde dal profilo politico di chi assume il controllo dell’amministrazione pubblica. In molti altri casi, invece, non si registrano particolari benefici, ma si assiste invece alla composizione di meccanismi di delegittimazione mediatica.

Tutti ricorderanno come in Italia, per un determinato periodo di tempo lo status di dipendente pubblico ha esercitato una sua forza attrattiva, dovuta anche a un evidente riconoscimento sociale. Questo tempo è finito. Non si tratta di una questione di privilegi reali o percepiti, si tratta invece di una questione politica e culturale molto significativa. Ne è concausa la pulsione “antipolitica”, così viva nella nostra società. La deriva liberista di molte economie occidentali e la trazione esclusivamente finanziaria dei processi decisionali, hanno forgiato un’immagine convincente dei servizi pubblici come inefficienti e pericolosi per gli equilibri economici dei vari Paesi, facendo accettare in tal modo i tagli lineari alla spesa pubblica, che sono responsabili, ad esempio, della crisi dei sistemi sanitari, cui abbiamo assistito plasticamente con l’arrivo della pandemia, o dell’indebolimento strutturale della forza contrattuale e del riconoscimento professionale degli insegnanti.

Una prima causa di tale processo di deterioramento va ricercata nelle decisioni assunte in merito ai diversi sistemi di reclutamento del personale. Specialmente in alcuni settori del servizio pubblico, vedi la scuola, i ministeri, gli enti locali, l’assunzione di personale negli ultimi quarant’anni circa si è tradotta secondo molti osservatori in una forma di ammortizzatore sociale, sussidiario di un settore privato in affanno e spesso incapace di vera innovazione senza sfruttamento (anche a causa di una diffusa evasione fiscale che sottrae investimenti utili alla crescita economica). Il debito pubblico lievita, e una lettura superficiale dei fatti tende a far etichettare tutto come “spreco”, senza discriminare. I media manifestano spesso un’attitudine non disinteressata a suggerire all’opinione pubblica l’idea dell’inutilità anche di ciò che è essenziale, proponendo con una certa frequenza disdicevoli episodi di disservizio, dando loro il massimo risalto sui mezzi di comunicazione. È chiaro che una mente attenta e con elementari basi di statistica sarebbe in grado di osservare come tali episodi non eccedono l’incidenza attesa in ogni contesto lavorativo, archiviando con ciò il tentativo di denigrare la categoria dei lavoratori pubblici. Ma ci si rende conto, poi, del danno reale che si produce in una società, quando intere categorie responsabili di servizi essenziali per la vita collettiva, vengono indebolite, al punto da svilirne il peso sociale nella cultura sociale della cosa pubblica?

Torniamo dunque alla questione centrale: i figli e i nipoti del boom economico, quelli che, come li descrive Thomas Piketty, grazie alla social-democrazia hanno potuto studiare ed elevarsi al di sopra del contesto economico di appartenenza, ma che non hanno mai raggiunto o hanno successivamente perso quel benessere che le competenze acquisite avrebbero dovuto garantire, sono figure professionali come il medico, l’ingegnere, l’architetto, il docente di liceo (e in misura minore gli altri insegnanti), che godevano in altre epoche di una situazione economica e di uno status sociale migliore, almeno in Italia. Ora, invece, tanti ingegneri e architetti hanno ripiegato sull’insegnamento, molti medici e docenti devono passare attraverso anni di precariato per accedere a un posto a tempo indeterminato (non si pensi, infatti, che nel settore della sanità pubblica la carriera sia agevole e spianata, perché anche lì il percorso professionale è diversamente accidentato). Le condizioni di lavoro si sono complicate a tal punto da indurre chi può a mollare il prima possibile. Condizione, questa, diffusa in quasi tutti i Paesi europei, e particolarmente significativa in un lavoro usurante come quello educativo (nel Regno Unito quasi un terzo dei docenti lascia il lavoro entro i primi cinque anni, nei Paesi Bassi c’è una forte carenza di insegnanti elementari, tanto per citare due contesti che dall’Italia osserviamo con una punta d’invidia). Chi resta, per mancanza di alternative o per attaccamento alla professione, è ostaggio di un sistema che chiede tanto e restituisce meno: orari di lavoro sempre più flessibili, specialmente nelle città medio-grandi, attacchi continui da parte dei fruitori del servizio, difficoltà crescenti a conciliare lavoro e vita familiare, stipendi inferiori quasi di un terzo rispetto ad altri settori, delegittimazione sociale del proprio ruolo, formazione in servizio spesso percepita come inadeguata, ma indispensabile per implementare pratiche innovative/riforme, continue incursioni legislative in materia contrattuale. Accade che i concorsi per medici di pronto soccorso possano andare deserti e che il personale che già ci lavora non possa ottenere trasferimento in altro reparto per mancanza di sostituti. Accade che i docenti possano ritrovarsi a dover fare straordinari per coprire i colleghi assenti, anche quando i soldi per gli straordinari non sono sufficienti a coprire le necessità. Una migliore implementazione del Testo unico sulla salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, farebbe probabilmente emergere lo stato di esaurimento e di stress di alcune categorie e l’impatto economico che ne consegue per tutta la comunità.

Non è inverosimile che siano state tutte queste ragioni implicite, e non solo una circoscritta questione vertenziale, a spingere i sindacati della scuola verso la richiesta dell’apertura immediata di un tavolo di trattativa, in ordine a una diversa attenzione nei confronti di una categoria di lavoratori pubblici che, anche in casi recentissimi, come l’emergenza pandemica o l’accoglienza dei minori in fuga dalla guerra, ha sempre dimostrato un grande senso di responsabilità. Senza dimenticare che – a oggi – gli insegnanti italiani sono ancora in attesa del rinnovo contrattuale.

 

(credit foto ANSA/CESARE ABBATE)



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