Pnrr bloccato, dove abbiamo sbagliato?

L'Ue riscontra difficoltà da parte dell'Italia nel gestire i fondi. I politici si danno la colpa l'un l'altro, i regionalisti colgono la palla al balzo per sostenere l'autonomia differenziata e nessuno indica il vero problema: una distribuzione degli investimenti disastrosa.

Enrico Cipriani

È notizia recente (e purtroppo non sorprendente): i soldi del Pnrr, probabilmente, non saranno (interamente) utilizzati, perché mancano piani di investimento adeguati. La situazione è grottesca: l’Italia dispone di denaro ma non è in grado di spenderlo, di investirlo in modo adeguato. Nel caso specifico, l’Unione Europea riscontra difficoltà e criticità nella gestione dei fondi del Pnrr; un’ingerenza, si dirà, il che è vero; ma un’ingerenza ovvia e scontata, visto che si tratta di soldi europei (pretendere da parte dell’UE un totale laissez-faire sarebbe becera retorica e ingenuità). E, come c’era da aspettarsi, comincia il gioco dello scarica barile: il governo Meloni, prima, accusa il governo Draghi; poi, dopo un colloquio fra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio, le critiche vanno all’UE; poi, però, ritorna l’accusa: è colpa del governo Conte II, che aveva predisposto dei piani di investimento approssimativi.

Naturalmente, il flop nella gestione dei soldi del Pnrr dà ai “regionalisti” e agli “autonomisti” l’occasione per sostenere, ancora una volta, che una gestione locale dei fondi sarebbe di gran lunga migliore di una gestione statale: è il caso di Luca Zaia, il paladino veneto (per il Veneto), il quale sostiene, più o meno scherzosamente, che se il governo non è in grado di investire i soldi, ci possono pensare le regioni – e coglie questa occasione per strizzare l’occhio ai giovani elettori, che descrive come il motore propulsore del Veneto e dell’Italia (parla di investimenti young-friendly). E poi abbiamo, ovviamente, i pacificatori: Pierferdinando Casini imputa le difficoltà che caratterizzano i piani di investimento (la loro inadeguatezza) alla litigiosità della classe politica, e sostiene che solo un patto fra destra e sinistra potrà portare a una soluzione.

Uno spettacolo, questo, già visto; anzi, che ormai fa parte del “costume” della politica italiana: la classe politica non è in grado di investire in modo adeguato i soldi di cui dispone. Gli investimenti sono parcellizzati, male organizzati; i soldi, destinati sulla carta a un certo scopo, vanno a casaccio di qua e di là, e talvolta nemmeno arrivano a destinazione. Colpa dei decreti attuativi, si dirà, che, quando ci sono, sono spesso confusi, mal scritti e talvolta incompatibili con la normativa vigente, tantoché spesso è necessario affidarsi alla magistratura. Così è; ma i decreti attuativi – e i piani di investimento in generale – sono scritti dagli uomini, non scendono dal cielo. L’origine del problema, dunque, è da ricercarsi nella gestione politica del denaro; una gestione – questo è il problema – che deve accontentare tutti, che deve distribuire a tutti coloro che hanno un qualche interesse e che possono esercitare una qualche pressione sul governo una fetta di soldi. Così, fondi importanti che dovrebbero essere indirizzati a specifici fini vengono parcellizzati a distribuiti di qua e di là; insomma, per usare un’espressione poco raffinata, tutti corrono alla mangiatoia, e tutti devono mangiare qualcosa. Non è dunque una questione di litigiosità soltanto; è una questione di cattiva interpretazione della democrazia e del pluralismo: se io sono un attore politico (e dunque ho un peso politico), io pretendo la mia fetta – quando in realtà sarebbe necessario guardare a fini che prescindono dal proprio tornaconto personale in termini di approvazione elettorale.

Ciò non significa, però, che la cattiva gestione dei fondi non sia determinata anche da problemi strutturali, quali la burocrazia e un sistema di norme complesso, articolatissimo e, talvolta, contraddittorio, che dà ai passacarte, ai vari responsabili della PA, un potere fuori controllo: la firma o la non firma di un burocrate può bloccare per anni (se non per decenni) un progetto edilizio, un programma di lavori. In questo ginepraio giuridico, i burocrati sguazzano, passando dall’essere meri esecutori di compiti a decisori politici. In un sistema del genere, la corruzione è un rischio concreto: farsi corrompere e corrompere diventa una scorciatoia per aggirare ostacoli più o meno giustificati che potrebbero sorgere. Rattrista riscontrare che, anche oggi, i cittadini diano per scontato il fenomeno della corruzione, e addirittura molti di loro vedano i fondi del Pnrr come un incentivo a questo spregevole fenomeno.

 

Foto Ministero delle Imprese e del Made in Italy



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