La politica come mestiere e come vocazione

Dopo Tangentopoli, i partiti sono diventati dei brand effimeri, concepiti da un leader che si atteggia da manager aziendale. Risultato: l’unica attività lavorativa nella quale “i politici” si sono specializzati è stata l’occupazione dei centri decisionali del potere politico-amministrativo.

Fausto Pellecchia

Dopo la tempesta di Tangentopoli, la scomparsa dei partiti nelle forme novecentesche di organizzazione politica ha coinciso sostanzialmente con l’estinzione della loro ragion d’essere, di ciò che costituiva il nucleo vitale della loro azione: la selezione dei quadri in base alle regole statutarie della democrazia interna, il coinvolgimento della base sociale, la passione della militanza, l’insediamento e il radicamento territoriale, ecc.

Quelle formazioni che ancora oggi, per un incontrollabile riflesso condizionato, ci ostiniamo a chiamare partiti, hanno sepolto definitivamente il loro fondamento storico-politico, sancito dalla nostra Carta costituzionale (art.49). Sono diventati piuttosto dei brand effimeri, concepiti da un leader che si atteggia da manager aziendale, e che ne gestisce tempi, modalità, alleanze e/o incompatibilità, secondo i criteri del marketing per trarne il massimo profitto nella gestione del fluttuante mercato delle opinioni.

Anche il Partito Democratico, che pure – attraverso la sequenza delle sue metamorfosi politico-culturali (PCI-DC, PDS, DS, PD] – si è sforzato di conservare l’apparenza della tradizionale forma-partito, è stato inesorabilmente contagiato dal virus del leaderismo correntizio. In particolare, i dirigenti locali del PD,  provenienti dagli organismi burocratici del funzionariato del PCI, hanno approfittato degli sconvolgimenti provocati dal tumultuoso trapasso di fine secolo, per occupare i ruoli principali del potere politico: come membri delle assemblee e dei governi regionali, delle rappresentanze parlamentari in Italia e in Europa, nei corpi intermedi, ovvero in tutti quegli enti, a partecipazione statale, per la produzione, la diffusione e valorizzazione di beni e servizi di interesse generale (consorzi, cooperative, ivi comprese le ASL).

Il curriculum di questi dirigenti, ex-funzionari di partito, mostra con evidenza un tratto di ininterrotta simbiosi tra attività politica e attività professionale. Si tratta di persone che hanno integralmente riconvertito, fin dalla prima giovinezza, la militanza politico-burocratica in un mestiere a tempo indeterminato. L’unica attività lavorativa nella quale si sono specializzati è stata la progressiva occupazione dei centri decisionali del potere politico-amministrativo. Ed è stato proprio questo processo simbiotico tra sfera pubblica e curriculum vitae professionale, tra rappresentanza sociale e carriera personale, l’origine della formazione della “casta” partitocratica, nonché del conseguente contraccolpo populista-movimentista, che ha trascinato l’attività politica nel buco nero del qualunquismo e dell’incompetenza – con la promozione di un ceto dirigente spesso ignaro dei minimi rudimenti storico-culturali della democrazia rappresentativa.

Questa situazione problematica, caratteristica della crisi che stiamo vivendo, è aggravata da leggi elettorali, anch’esse effimere e congiunturali, proposte dalla maggioranza parlamentare del momento, che obbligano i vertici delle forze politiche ad esercitarsi in sfibranti acrobazie, in funzione del computo statistico dei sondaggi e delle oscillazioni di voto, esattamente come accade per il marchio di ogni società per azioni.

In questo contesto, è opportuno ricordare che, poco più di un secolo fa, nel 1919, Max Weber pubblicava il suo celeberrimo saggio La politica come professione – con l’avvertenza che il sostantivo tedesco Beruf, traducibile in italiano con professione, significa originariamente vocazione.

In esso, Weber indicava tre qualità decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza: «Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una “causa” (Ur-sache), al dio o al diavolo che la dirige. […] Essa non crea l’uomo politico se non mettendolo al servizio di una “causa” e quindi facendo della responsabilità, nei confronti appunto di questa causa, la guida determinante dell’azione. Donde la necessità della lungimiranza […] ossia della capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore: come dire, cioè, la distanza tra le cose e gli uomini». Conseguentemente, con strordinario intuito prognostico, Weber delineava l’origine della degenerazione politica nell’emergere di due specie di peccati mortali: «La mancanza di una “causa” giustificatrice (Unsachlichkeit) in quanto mancanza di responsabilità. La vanità, ossia il bisogno di porre in primo piano con la massima evidenza la propria persona, induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di quei peccati o anche tutti e due. Tanto più, quanto più il demagogo è costretto a contare “sull’efficacia”, ed è perciò continuamente in pericolo di divenire un istrione […]. Egli rischia, per mancanza di una causa, di scambiare nelle sue aspirazioni la prestigiosa apparenza del potere per il potere reale e, per mancanza di responsabilità, di godere del potere semplicemente per amor della potenza, senza dargli uno scopo per contenuto».

Alla vigilia delle imminenti elezioni politiche, lo spettro di una destra reazionaria post-fascista, che minaccia di stravolgere gli stessi principi costituzionali, induce a sorvolare o a rinviare l’esame dei limiti e delle interne contraddizioni delle forze che vi si oppongono. Ma se ci si vuole dotare della necessaria “lungimiranza” invocata da Weber, non va sottaciuta la vanità e la prepotenza di una “casta” che si ritiene intramontabile e che rischia di neutralizzare, anche nella congiunturale determinazione delle candidature, ogni pur timido impulso al rinnovamento: tutto resta affidato ai calcoli probabilistici delle segreterie, basate sul computo del seguito (clientelare) delle potenziali candidature elettorali. Altrimenti, la perseveranza dei “mestieranti” di lungo corso continuerà ad occupare il campo delle decisioni collettive: anziché svolgere il ruolo di “padri nobili”, disposti a prodigare sostegno e “buoni consigli” ai giovani dirigenti che intendano cimentarsi nell’agone politico, essi insisteranno con inaudita protervia nel dare il “cattivo esempio” di “padri-padroni”, preoccupati unicamente di una qualche forma di sopravvivenza politica.

Contro queste forme di letale arroganza, responsabili dell’estrema degenerazione odierna della sfera pubblica, è più che mai legittimo il motto «Ribellarsi è giusto!», che risuona nel titolo dell’infuocato pamphlet nel quale sono raccolte le provocatorie e caustiche riflessioni di Jean-Paul Sartre contro le ingiustizie e l’ipocrisia delle nostre società.



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