Politica e droga: due contributi per ripensare il ruolo dello stato

Due libri ci aiutano a comprendere come la storia delle droghe rappresenti uno dei massimi esempi di sinergia tra stato e capitalismo, tra lotta per il potere e logica del profitto.

Fabio Armao

Peter Andreas, Killer High. Storia della guerra in sei droghe, Meltemi, Milano 2021.
Óscar Martínez e Juan José Martínez, El niño de Hollywood. Una storia personale della gang più pericolosa al mondo, Milieu edizioni, Milano 2021.

La retorica della guerra alla droga, negli ultimi decenni, ha contribuito ad alimentare una visione a dir poco riduttiva (se non, a volte, del tutto falsa) di una delle più gravi patologie di massa della società contemporanea, destinata ad alimentare uno dei più redditizi mercati del capitalismo criminale, i cui profitti sono garantiti anche al netto della morte di un numero considerevole dei suoi consumatori, come del resto avviene nell’altrettanto proficuo settore degli armamenti.

Ciò che si tende maggiormente a dissimulare è come gli stati, a partire dalle grandi potenze, abbiano contribuito a generare e alimentare tale mercato. A raccontare per la prima volta questa storia fin dalle sue origini è Peter Andreas, politologo della Brown University, che da anni indaga con accuratezza le zone grigie della politica – che si tratti di studiare il florido mercato nero degli aiuti umanitari che ha alimentato il lungo assedio di Sarajevo, protrattosi dal 1992 al 1996, arrivando a coinvolgere i caschi blu delle Nazioni Unite; o lo sviluppo dell’economia illecita al confine tra Messico e USA; o, ancora, il ruolo determinante giocato dal contrabbando nella nascita stessa degli Stati Uniti (testimoniato dalla presenza di famosi contrabbandieri tra i fondatori di alcune delle più note e longeve dinastie familiari del capitalismo americano)[1].

Killer High – nell’ottima traduzione di Andrea Maffi e Paolo Ortelli – si propone di integrare storia della guerra e storia delle droghe analizzando il rapporto alquanto complesso e talvolta contraddittorio tra sostanze psicoattive e conflitti militari in ogni suo dettaglio. Come osserva Andreas nell’Introduzione, infatti, “le droghe hanno migliorato il morale delle truppe e le prestazioni sul campo di battaglia, eppure hanno anche creato masse di soldati di fanteria drogati; hanno finanziato conquiste imperiali ma anche insurrezioni; hanno supportato governi e talvolta, al tempo stesso, ne hanno rovesciati”. Ciò, tuttavia, significa che “nella maggior parte dei casi la relazione tra droghe e guerra ha avuto a che fare con l’arte di governare, servendo gli interessi dello stato e contribuendo a progetti di state building” (p. 13).

Di esempi storici, del resto, il libro è straordinariamente ricco, coprendo un lasso temporale che va dall’antichità a oggi, e uno spettro di sostanze che va dall’alcol alla nicotina e al caffè; dall’oppio, alle amfetamine e alla cocaina. Dovendo riassumere, potremmo dire che gli stati hanno fatto ricorso alle droghe in relazione alle guerre soprattutto per tre motivi. Il primo, fondamentale e costante, è appunto la volontà di “sostenere” i propri combattenti (e spesso anche i civili coinvolti nel conflitto), attenuandone lo stress e la paura, ottundendone le sofferenze fisiche e accrescendone la combattività e la resistenza alla fatica – e anche, all’occorrenza, la necessità di indebolire i soldati nemici.

Il secondo motivo è economico: in particolare le tasse su alcol, fumo e caffè hanno per secoli fornito introiti indispensabili a pagare le spese di guerra; mentre, più di recente, il narcotraffico si è dimostrato utilissimo a finanziare tanto le guerriglie quanto le controinsurrezioni. E non solo. Non va dimenticato, infatti, che le droghe, un’invenzione europea frutto delle ricerche di chimici in prevalenza tedeschi, ha alimentato un florido mercato che ha coinvolto anche le grandi industrie farmaceutiche, molto abili nello sfruttare a proprio vantaggio l’ambiguità e la labilità del confine tra uso terapeutico e voluttuario di quelle sostanze psicoattive. Questo vale per la morfina e l’eroina come derivati dell’oppio, sintetizzate a quasi un secolo di distanza, tra l’inizio e la fine dell’Ottocento; e così pure per la scoperta della formula della cocaina idrocloride, destinata a risolvere il problema della troppo facile deperibilità delle foglie di coca nel trasporto lungo le tratte transoceaniche o continentali, nel momento di massimo successo commerciale di prodotti che ne facevano uso, come l’elisìr francese Vin Mariani e, più tardi, negli USA, la Coca-Cola e la Coca-Bola (tabacco da masticare).

Il terzo motivo, su cui vorrei concentrare maggiormente l’attenzione, è quello politico-strategico. Fin dalle sue origini, infatti, la droga viene utilizzata come strumento di politica di potenza. Il primo esempio, ben noto, è quello delle due guerre (del 1839-42 e del 1858-60) con le quali l’Inghilterra impone alla Cina una liberalizzazione di fatto del commercio di oppio, in particolare quello indiano per decenni contrabbandato dall’East India Company al fine, alquanto prosaico, di riequilibrare i costi crescenti dell’importazione di tè nella madrepatria britannica. È, tuttavia, con gli Stati Uniti e nella seconda metà del Novecento che la realpolitik della droga si spinge fino all’estremo. In un primo tempo, infatti, i governi americani non si fanno alcuno scrupolo di incentivarne la produzione e il traffico, quando ritengono (sbagliando) che ciò possa rivelarsi funzionale alla vittoria nei conflitti in corso; salvo poi, in un secondo momento, scatenare nuove guerre nei paesi di produzione nel tentativo (vano) di limitarne il consumo in patria.

È una storia cui Peter Andreas dedica grande attenzione nel suo libro e che provo a ricostruire brevemente, distinguendone due fasi in chiave geopolitica[2]. La prima è ambientata nel continente asiatico e ha inizio con il finanziamento delle truppe ribelli nazionaliste, fuoriuscite dalla Cina dopo la vittoria della rivoluzione maoista nel 1949, e la nascita di quel Triangolo d’oro (compreso tra Laos, Birmania e Thailandia) che accompagnerà l’intero svolgimento della lunga guerra del Vietnam, sopravvivendo alla sua fine nel 1975. Questa prima fase prosegue poi, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, con il sostegno garantito ai capi tribù locali, in grado così di trasformarsi in veri e propri drug lords della nascente Mezzaluna d’oro (che si estende anche al Pakistan e a parte dell’Iran).

La seconda fase della storia riguarda invece l’America latina e può essere datata a partire dal 1986 – anche se un prologo ancora “in stile asiatico” si era già avuto in realtà nel 1979, quando la Cia aveva finanziato e addestrato un gruppo controrivoluzionario denominato Contras, ben sapendo del suo coinvolgimento nel narcotraffico, con l’intento di sovvertire il regime sandinista appena insediatosi a Managua. È in quell’anno, infatti, che l’amministrazione Reagan, nel tentativo di arginare l’epidemia di crack (derivato della cocaina) che sta colpendo i ghetti urbani statunitensi, sancisce che il traffico di droga rappresenta a tutti gli effetti una minaccia alla sicurezza nazionale.

Il contesto, qui, è alquanto diverso da quello asiatico. In America latina, infatti, gli Stati Uniti hanno rivendicato con successo un ruolo da protagonista nella politica interna degli stati dell’intero subcontinente durante tutta la Guerra fredda, in particolare armando e addestrando forze armate e gruppi paramilitari al servizio di governi reazionari nel tentativo di arginare la diffusione della guerriglia comunista. Da questo punto di vista, la nuova guerra alla droga si pone in assoluta continuità con il passato. Si limita, infatti, a sostituire (a volte in realtà ad affiancare, come in Colombia) i narcos alla guerriglia; con il risultato di favorire la crescente militarizzazione dello scontro e, di conseguenza, l’aumento indiscriminato della violenza ai danni della popolazione civile, con tassi di mortalità che possono arrivare a superare quelli registrati nei periodi di guerra civile, nei paesi dell’area che ne hanno fatto drammatica esperienza.

È il caso del Salvador, più volte destinato a registrare il record assoluto di morti ammazzati per abitanti, come leggiamo già nelle prime pagine del libro di Óscar e Juan José Martínez: “Nel 2015 il Messico dei cartelli della droga, del Chapo Guzmán e degli Zetas si scandalizzò quando raggiunse un tasso di 18 omicidi per ogni 100.000 abitanti, lo stesso anno El Salvador ebbe un tasso di 103. Non parliamo poi degli Stati Uniti, il cui tasso di omicidi è intorno al 5. Sopra i 10 morti ammazzati ogni 100.000 abitanti le Nazioni Unite parlano di epidemia” (p. 27).

A metà strada tra reportage e ricerca etnografica, scritto con un realismo a volte persino agghiacciante, El niño de Hollywood ci racconta un fenomeno molto meno conosciuto in Italia, anche se salito agli onori delle cronache a Milano, più volte tra il 2015 e il 2019, in occasione di eventi violenti che hanno visto protagoniste alcune gang ispaniche ancora allo “stato nascente” – trovate citati questi episodi nella Prefazione scritta da Paolo Grassi e Andrea Freddi, entrambi antropologi esperti di America latina oltre che traduttori del libro, indispensabile per rendere comprensibile al grande pubblico italiano un fenomeno (in apparenza) così distante dai nostri canoni.

Uno dei più nefasti “effetti collaterali” delle successive guerre alla droga, infatti, è stato indurre la proliferazione e la crescente istituzionalizzazione di gruppi di criminalità organizzata lungo tutto il continente americano, favorendo il moltiplicarsi delle aree di produzione e delle rotte continentali i cui flussi, immancabilmente, vanno da Sud a Nord per rispondere all’inesauribile domanda di droghe proveniente proprio dagli USA (il dato del tutto rimosso dalle amministrazioni statunitensi, sia repubblicane sia democratiche, ignare di qualunque politica di “riduzione del danno” a casa propria). Ebbene, tra i principali protagonisti di questo vero e proprio processo di crime building vanno oggi annoverate di sicuro proprio le maras salvadoregne, la cui storia presenta degli aspetti di grande interesse.

Lo spiegano molto bene i due autori ricostruendo la “carriera” di un sicario della Mara Salvatrucha 13, dal reclutamento poco più che bambino alla morte a 31 anni, attraverso un lavoro sul campo che oltre a giorni e giorni di interviste con il protagonista ora “pentito” Miguel Ángel Tobar, li ha portati a incontrare decine di altri pandilleros (il termine con cui di identificano i membri di queste bande), fin dentro alcune delle lugubri prigioni che li ospitano in El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico.

Il primo aspetto rilevante è che le maras salvadoregne nascono, in realtà, nelle periferie di Los Angeles, negli anni Ottanta, ad opera di professionisti della violenza (disertori delle forze armate ed ex-guerriglieri) in fuga dalla guerra civile e costretti, in qualche modo, a difendersi dalle gang di neri e latinos già radicate sul territorio.

Il secondo è che, negli anni Novanta, esse diventano protagoniste di una colonizzazione di ritorno del Salvador, indotta dalle politiche di deportazione messe in atto dal governo statunitense, il cui successo è determinato dalla loro capacità di vendere senso di identità e appartenenza a masse di adolescenti abbandonati a sé stessi e privati di qualunque prospettiva di studio o di lavoro. La violenza efferata nei confronti dei membri di gang nemiche o anche della propria, se soltanto si sospetti un loro tradimento, diventa l’unica ragione di vita; il corpo dell’avversario disumanizzato, “un foglio bianco su cui tracciare dei segni” col machete (p. 235).

Il terzo aspetto rilevante è che, nel tempo, anche le maras, come è avvenuto a organizzazioni criminali a noi più note come le mafie, tendono a istituzionalizzarsi; ma secondo linee orizzontali e non verticali: alle rigide gerarchie preferiscono le più elastiche reti, cui riescono a dare perfino carattere transnazionale, sbarcando sul continente europeo (in Spagna prima e più ancora che a Milano) al seguito dei migranti del proprio stesso paese, destinati a trasformarsi nelle prime vittime della loro violenza e a vedere a volte i propri stessi figli reclutati nelle pandillas.

Per quanto diversi nel metodo e nei contenuti, entrambi questi libri contribuiscono a restituire coerenza e significato a una vicenda complessa e davvero globale come quella delle droghe. Killer High di Peter Andreas, tra l’altro, smentisce una volta per tutte la tesi, inspiegabilmente tuttora accreditata in campo accademico, della “naturalità” della guerra: il cinismo con il quale gli stati, a partire dalle democrazie, si servono delle droghe per migliorare le prestazioni dei combattenti – anche al prezzo di diffonderne il consumo nei propri stessi paesi – rappresenta la migliore dimostrazione empirica che la guerra non ha niente a che fare con l’innata aggressività umana. Il buon soldato va costruito attraverso un articolato e violento processo di addestramento all’obbedienza al comando del superiore gerarchico e, in definitiva, dell’autorità politica di riferimento e, ove necessario, dopato per migliorarne le prestazioni e attenuarne l’inibizione a uccidere.

El niño de Hollywood dei fratelli Martínez contribuisce a mettere in discussione uno degli archetipi delle scienze sociali, in relazione allo stato: l’idea weberiana che la sovranità si identifichi con il monopolio della forza fisica legittima. La storia del Salvador – e dell’intera America latina, in realtà – dimostra che, al contrario, la sovranità è una risorsa condivisa, ripartita tra diversi poteri, con i governi stessi (più o meno legittimi) che spesso, spontaneamente o perché costretti dalle circostanze, esternalizzano i costi di quel monopolio subappaltando la gestione di porzioni del proprio territorio ad altri attori, dalla guerriglia ai gruppi di criminalità organizzata[3].

Al termine della lettura, si ha la tragica conferma che la storia delle droghe rappresenta a tutti gli effetti uno dei massimi esempi di sinergia tra stato e capitalismo, tra lotta per il potere e logica del profitto. Al suo interno trovano spazio dalle grandi potenze, con i loro disegni strategici planetari, ai giovani protagonisti delle faide quotidiane combattute fin nelle periferie delle periferie del mondo, nel duplice (e talvolta indistinguibile) ruolo di carnefici e vittime di un gioco in cui la violenza diventa essa stessa una forma di dipendenza, una sostanza psicoattiva i cui effetti si sommano a quelli della morfina o della cocaina. L’immagine che ne risulta, come in un improvviso controcampo di un regista un po’ maldestro, è quella, irredimibile, di una società opulenta e tecnologicamente all’avanguardia che ha comunque deciso di far scempio di sé stessa.

NOTE

[1] Si veda, rispettivamente, Blue Helmets and Black Markets. The Business of Survival in the Siege of Sarajevo, Cornell University Press, Ithaca 2008; Border Games. Policing the U.S.-Mexico Divide, Cornell University Press, Ithaca 2009; Smuggler Nation. How Illicit Trade Made America, Oxford University Press, Oxford 2013.

[2] Per una trattazione più ampia, rinvio al mio Le reti del potere. La costruzione sociale dell’oikocrazia, Meltemi, Milano 2020.

[3] Se ne trova ampia conferma, negli ultimi anni, nella pubblicazione di ottime ricerche dedicate proprio alla proliferazione di micro-regimi armati gestiti da attori non statali della violenza, soprattutto a livello urbano. Si veda, ad esempio, E.D. Arias, Criminal Enterprises and Governance in Latin America and the Carribean, Cambridge University Press, Cambridge 2018; e G. Feltran, The Entangled City. Crime as Urban Fabric in Sao Paolo, Manchester University Press, Manchester 2020.



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