Nemico pubblico. Le politiche dell’odio nel Novecento americano

Nel corso del Novecento il continente americano è stato ripetutamente segnato dall’insorgere e dal diffondersi di politiche dell’odio. I nove saggi che compongono il volume che qui presentiamo, pubblicato dalla casa editrice Nova Delphi Libri, ripercorrono altrettanti case studies, a riprova della varietà di queste politiche tra Stati Uniti e America Latina nei diversi momenti e contesti storici.

Alessandra Lorini

Nel 1935 Smedley Butler, leggendario generale dei marines, pluridecorato e due volte medaglia d’onore, ormai in pensione, pubblicò quello che sarebbe diventato una specie di manifesto contro gli interventi militari statunitensi in difesa degli interessi delle corporations americane (War is a Racket):

«Nel 1903 ho dato una mano a rendere l’Honduras accogliente per le compagnie di produzione di frutta statunitensi. Nel 1914 ho contribuito a rendere sicuro il Messico, specialmente Tampico, per gli interessi petroliferi statunitensi. In seguito mi sono impegnato per fare di Haiti e Cuba posti decenti affinché i ragazzi della National City Bank potessero tranquillamente raccogliere i loro guadagni. Per favorire gli interessi di Wall Street ho partecipato ad azioni violente in mezza dozzina di Repubbliche centroamericane. E l’elenco degli affari sporchi è lungo: nel 1909-1912 ho purificato il Nicaragua per renderlo idoneo alle attività della banca internazionale Brown Brothers; nel 1916 nella Repubblica Dominicana ho rimesso le cose a posto per la salvaguardia degli interessi dell’industria zuccheriera statunitense…».

E siamo solo nel 1935: se le famose Banana Republics furone create, negli anni Trenta, dalle grandi corporations, le dittature militari degli anni Settanta e Ottanta furono messe in piedi e sostenute da militari addestrati da corpi speciali statunitensi con il corollario della propaganda economica neoliberista dei Chicago Boys della scuola di Milton Friedman.

Tutti questi fatti del Novecento non sono direttamente oggetto della bella, importante quanto ambiziosa raccolta di saggi curata da Laura Fotia, dal titolo Le politiche dell’odio nel Novecento americano (Nova Delphi Libri, 2020, pp. 243), ma di quel volume costituiscono inevitabile premessa.

I nove contributi che lo compongono, densi e metodologicamente variegati, a firma di giovani americanisti italiani, si presentano infatti come un confronto storiografico sulle «politiche dell’odio» nel continente americano e offrono al lettore, a riprova della varietà di queste politiche tra Stati Uniti e America Latina nei diversi momenti e contesti storici, altrettanti case studies.

Attraverso le pagine del volume il concetto di odio assume la concretezza di forme di delegittimazione, minacce, rappresentazioni e simboli denigratori, aggressioni fisiche, violenze di massa. Filo conduttore di tutto il «secolo americano» – secondo la definizione che ne diede, nel 1940, il giornalista del Time, Henry Luce – la Guerra fredda in tutte le varianti politiche, economiche e militari in cui l’anticomunismo si è manifestato come pratica di annientamento del nemico interno ed esterno.

Al termine della lettura di questi nove case studies mi è apparsa l’immagine di Cuba occupata dagli Usa all’inizio del Novecento. Lo storico Louis Pérez Jr. e la sua scuola hanno mostrato, con centinaia di studi pubblicati dal 1998 in avanti, le connessioni inscindibili tra l’ascesa statunitense sulla scena mondiale nel Novecento e la storia di vicinanza geografica, economica, sociale e politica con Cuba (e mi ha stupito che tra i contributi del volume non ve ne sia uno dedicato a questo paese). L’intervento militare statunitense del 1898 costituisce la prima impresa «umanitaria» degli Stati Uniti: è la prima azione militare, giustificata in nome della coincidenza tra valori universali e interessi economici nordamericani, di un «impero benevolo» che si autorappresenta come nato da una guerra di liberazione coloniale. Una pagina importante della storia degli Stati Uniti e del continente americano, quella della «splendida piccola guerra», come la definì John Jay, allora ambasciatore statunitense in Gran Bretagna, in una lettera a Theodore Roosevelt, eroe – con i suoi Rough Riders – della battaglia di San Juan Hill e di lì a poco vice presidente degli Stati Uniti. È una guerra breve, vinta facilmente grazie al fatto che gli indipendentisti cubani venivano da un’estenuante resistenza contro l’esercito spagnolo (resistenza disconosciuta dai libri di storia di buona parte del Novecento). Cuba, la «perla delle Antille» dello sconfitto impero spagnolo, diventerà così, durante l’occupazione militare statunitense che terminerà nel 1902, laboratorio di quei progetti di soft e hard power che verranno poi applicati altrove.

Libertà e modernità da allora saranno presentate come inscindibili.

Così come l’istituzione della schiavitù su basi razziali e l’idea di libertà dei proprietari bianchi erano inscindibili al momento della fondazione degli Stati Uniti – come ha dimostrato Eric Foner in Storia della libertà americana (2001) – nel «secolo americano» l’impero verrà legittimato nelle sue imprese in quanto strumento di estensione dei benefici della libertà al mondo intero.

***

Tra le varie forme che l’anticomunismo statunitense ha assunto, quella liberal vede tra i promotori lo storico Arthur Schlesinger Jr., poi consigliere di JFK, che nel 1949 pubblica The Vital Center. The Politics of Freedom, un vero e proprio manuale di politica culturale che presenta la Guerra fredda come argine al fascino che il comunismo avrebbe potuto esercitare nelle realtà economicamente meno floride. La dottrina Truman e il piano Marshall sono gli strumenti con cui estendere il proprio raggio all’America Latina e al resto del mondo.

A questa variante dell’anticomunismo statunitense è dedicato, all’interno del volume, il contributo di Alice Ciulla, che offre una disamina molto interessante dell’ottica con cui i politologi statunitensi hanno guardato in particolare al Partito comunista italiano, dal 1945 al 1964.

All’anticomunismo violento come ponte tra America Latina e Italia è dedicato invece il contributo di Vito Ruggiero che ricostruisce quell’ondata migratoria che vede i terroristi neofascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, tra i maggiori responsabili della strategia della tensione, trasferirsi clandestinamente in Cile e Paraguay, protetti dai regimi militari del «Piano Condor». I militanti neofascisti italiani si ispirano al pensiero di Julius Evola, sono equidistanti da Stati Uniti e Unione Sovietica ma devono adattarsi alle dittature militari latinoamericane che negli anni Settanta seguono – su ispirazione degli Usa – la «Doctrina de la seguridad nacional» (Dsn) in funzione anticomunista: le giunte militari mantengono un perenne stato di emergenza contro il «nemico interno» e – sulla scorta dei dettami di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys – portano il liberismo al suo estremo fino a espellere lo Stato dall’economia. Famoso è il ruolo giocato dalla Escuela de las Americas nella realizzazione di colpi di Stato ai danni di governi progressisti democraticamente eletti. Molto interessante è la ricostruzione di Ruggiero dei rapporti tra la dittatura cilena e il neofascismo italiano rispetto al problema dei numerosi rifugiati cileni che in quegli anni trovano asilo in Italia, «nemici della patria» da eliminare con ogni mezzo: l’anticomunismo paranoico e cospirativo della Dsn vedeva in ogni oppositore una pedina del complotto sovietico da far fuori.

La stessa logica della Dsn sta dietro lo sterminio, in Colombia, alla metà degli anni Ottanta, della Unión Patriótica: caso emblematico di eliminazione fisica degli «avversari ideologici» al centro del contributo di Francesca Casafina. La Unión Patriótica, partito di sinistra nato nel 1985 a seguito di accordi di pace tra il governo e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc), diviene il «nemico interno» accusato di essere il braccio politico della guerriglia. L’accurata ricostruzione dell’assassinio di più di 3 mila persone (dal maggio 1984 al dicembre 2002) e del sequestro e della sparizione di un altro migliaio si intreccia, nell’analisi di Casafina, alla ricostruzione di quella che sarà chiamata la guerra sucia contro la Unión Patriótica, fomentata da un odio sociale fondato su un sentimento anticomunista che arriva a negare i più elementari diritti di cittadinanza.

La negazione di qualsiasi diritto emerge ancor più chiaramente nel contributo di Laura Fotia sulla desaparición forzada e la guerra civile che insaguina El Salvador dal 1980 al 1992, con più di 70 mila vittime civili, migliaia di morti tra i combattenti e più di un milione tra sfollati e rifugiati. Fotia ricorda l’assassinio dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, che aveva ripudiato la violenta dittatura militare e cercato con ogni mezzo di promuovere il dialogo, scontando però un pressoché totale isolamento nella conferenza episcopale salvadoregna (Romero aveva scritto anche al presidente statunitense Jimmy Carter per scongiurare l’invio di armi e consiglieri militari in El Salvador, sicuro che avrebbero concorso a reprimere chi si era organizzato per la difesa dei basilari diritti umani). La precisa ricostruzione dell’intreccio tra logica della Guerra fredda e carattere endemico delle disuguaglianze economiche si traduce in un’indagine sulle radici della violenza di Stato: la politica dell’odio si manifesta nelle desaparición, nell’abbandono dei cadaveri in luoghi pubblici al fine di terrorizzare la popolazione, nella radicalizzazione di gruppi paramilitari provenienti dalle forze armate, negli squadroni della morte… Fotia passa scrupolosamente in rassegna gli archivi della desaparición forzada realizzati grazie alla mobilitazione della società civile e alle testimonianze dei sopravvissuti, fornendo così un quadro dettagliato dei profili delle vittime: insegnanti, sindacalisti, attivisti di diritti umani, giornalisti…

Al primo golpe militare della storia argentina, quello del 1930, è dedicato il contributo di Francesco Davide Ragno che mette in luce il ruolo giocato dall’identità nazionale, in questo caso l’argentinidad contenitore delle virtù essenziali della razza (ovvero della razza bianca, perché l’Argentina programmò sin dall’inizio politiche di blanqueamiento della popolazione attraendo immigrati europei). Fulvia Zega offre invece un confronto tra le politiche della paura in Argentina e Brasile tra le due guerre mondiali. Servendosi di fonti iconografiche che stigmatizzavano gli ebrei come nemici dell’Argentina, Zega mette in rilievo come la costruzione grafica del mostro «giudaico-bolscevico» – con l’inserimento del simbolo del comunismo, la falce e il martello, all’interno della stella di David – si contrapponga ai simboli che incarnano l’argentinità: la donna/Madonna che rappresenta la nazione argentina e l’ebreo mostro/serpente che la minaccia. Le fonti iconografiche relative al Brasile mostrano come in quel paese il processo di costruzione identitaria del «vero uomo brasiliano», che aveva inizialmente favorito i tedeschi come immigrati ideali, si arresti nel 1942 con la scelta di entrare in guerra a fianco degli Alleati.

***

Negli Stati Uniti di inizio Novecento, tra gli immigrati che arrivano in massa dall’Europa centrale e meridionale vi sono anche gli anarchici, che presto diventano il capro espiatorio di tutti i mali che minacciano la democrazia americana. Il clima anti-immigrati che si crea attorno al caso degli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, finiti innocenti sulla sedia elettrica nel 1927 dopo un processo durato anni e viziato all’origine da pregiudizi etnico-politici (nonostante una mobilitazione internazionale senza precedenti in loro favore), genera i presupposti per i Quota Acts, le leggi restrittive che negli anni Venti cambiano profondamente il quadro migratorio negli Stati Uniti. Il contributo di Roberto Carocci, centrato sulla costruzione dell’anarchico come nemico, mette in risalto le contraddizioni profonde della democrazia americana centrata sui propri ideali fondativi di libertà. Carocci presenta diverse tipologie di anarchismo, autoctone o di derivazione europea, mostrando, per esempio, come l’operaio anarchico di origine polacca Leon Czolgosz – che nel 1901 ferisce mortalmente il presidente McKinley durante l’esposizione panamericana di Buffalo – abbia una specificità profondamente diversa rispetto a quella, tutta americana, del sindacalismo anarchico e socialista degli Industrial Workers of the World (Iww) che organizzano grandi scioperi e attuano nuove forme di lotta tra gli immigrati unskilled nei centri industriali dell’Est e tra i lavoratori stagionali dell’Ovest.

Dal profilo stereotipato del militante anarchico che emerge dal dibattito pubblico dell’epoca risulta evidente che l’immigrazione straniera è percepita come potenziale minaccia, secondo il nesso immigrazione/anarchia/violenza: nonostante molti anarchici, compresa Emma Goldman, si dissocino dal folle gesto di Czolgosz – che nel giro di due mesi viene giustiziato pubblicamente sulla sedia elettrica e il cui odiato corpo viene dissolto nell’acido – tutto il movimento anarchico è visto come espressione di un complotto straniero mirante a distruggere la democrazia americana. Theodore Roosevelt, che succede a McKinley alla carica di presidente, si esprime immediatamente sulla necessità di combattere una incessante guerra contro gli anarchici, firmando leggi liberticide come l’Immigration Act (1903) che prevedeva precisi criteri di esclusione per chi tentava di arrivare negli Stati Uniti. Gli immigrati stranieri vengono inoltre esclusi, con una sentenza della Corte Suprema, dalla protezione del primo emendamento, relativo alla libertà di opinione e di stampa. Quando, nel 1917, gli Stati Uniti entrano in guerra, approvano poi ulteriori leggi liberticide come l’Espionage Act e il Sediction Act facendo leva sui quali vengono arrestati e condannati militanti socialisti come Eugene Debs e leader sindacali come Bill Haywood degli Iww. L’ondata repressiva di arresti, denunce anonime, processi manovrati, esecuzioni sommarie include anche la deportazione degli anarchici stranieri.

Il contributo di Claudia Bernardi sull’«odio al confine» analizza invece la violenza razziale contro i lavoratori messicani negli anni Settanta, una politica dell’odio costruita sullo stereotipo del migrante che ruba il lavoro ai cittadini statunitensi. Fin dal 1848, quando con la guerra contro il Messico gli Stati Uniti vittoriosi aggiungono al loro già enorme territorio più di un terzo di quello messicano, l’opinione pubblica statunitense colloca i messicani, su una immaginaria «linea del colore» tracciata per i non bianchi, vicino ai neri e agli indigeni. La razzializzazione si fa più acuta nei momenti di crisi, quando i messicani diventano veri e propri capri espiatori. Dopo la crisi del 1973 un «odio armato» al confine con il Messico difende la ‹‹bianchezza›› contro gli immigrati che entrano nel paese «senza documenti» per rubare il lavoro ai cittadini americani. Nelle città di confine tra Arizona e Sonora si registrano aggressioni, torture e omicidi di braceros: i processi ai presunti colpevoli si risolvono in assoluzioni da parte delle giurie, tutte bianche. Una vera e propria caccia ai messicani «illegali» viene compiuta da centinaia di membri armati del Ku Klux Klan, i quali, equipaggiati militarmente, pattugliano la frontiera in varie città di confine californiane e texane. Il connubio tra istituzioni e suprematisti bianchi armati porta a una militarizzazione del confine alimentata da un clima d’odio nei confronti di un «nemico» a volte definito più pericoloso di quello sovietico. Contro la politica dell’odio del KKK si mobilitano (oltre che i sindacati) neri, messicani, ebrei e latinos, ben coscienti che alla base di quell’odio c’è il grande disprezzo statunitense verso l’America Latina.

Alla retorica dell’odio nella politica del Sud segregato (cioè degli Stati dell’ex Confederazione) è invece dedicato il contributo di Giuliano Santangeli Valenzani. Si tratta di un esame complesso della retorica politica nel periodo di ascesa del regime di segregazione razziale (legittimato da una sentenza della Corte Suprema del 1896: Plessy vs. Ferguson, conosciuta come «separati ma uguali») durante il quale vengono progressivamente cancellati i diritti che gli ex schiavi avevano ottenuto durante la Ricostruzione. La retorica dei politici bianchi usa l’odio razziale e lo forgia nella volgarizzazione scientifica delle teorie della supremazia razziale bianca, facendo altresì leva sulla venerazione per la Confederazione e l’eroico sacrificio dei soldati sudisti nella Guerra civile. Sarà solo l’apparire sulla scena del movimento per i diritti civili, negli anni Cinquanta-Sessanta, a far riemergere nel discorso pubblico nazionale e internazionale la questione del regime di apartheid del Sud.

Con la graduale, sofferta, apertura del Partito democratico, durante l’amministrazione Truman, ai Civil Rights, nel Sud la forte retorica anti-desegregazionista si va intrecciando a quella anticomunista. Riecheggiano i discorsi contro l’ingerenza federale e la difesa dei «diritti degli Stati» che avevano portato alla secessione per il mantenimento della schiavitù e che ora inneggiano alla salvaguardia della segregazione razziale. Santangeli Valenzani riscontra diversi approcci nel discorso politico, ma si tratta di sfumature: anticomunismo e razzismo sono strettamente legati in una comune istigazione all’odio che ha il suo background culturale, storico e religioso nell’eredità della schiavitù. Le politiche dell’odio si fondano su teorie cospirative secondo le quali i comunisti vorrebbero distruggere l’intero Sud appoggiando la causa dei neri.

Sarebbe interessante spingere la sua analisi oltre il 1965, anno del Voting Right Act ma anche della marcia da Selma a Montgomery: nuove politiche di istigazione all’odio razziale si scontrano con la resistenza di leader politici e comunità afroamericani, come per esempio John Lewis che partecipò a quella marcia e ad altre proteste non violente contro la segregazione e che solo alcuni mesi fa, nel giugno del 2020, a pochi giorni dalla sua morte, visitò Black Lives Matter Plaza a Washington come gesto simbolico per passare il testimone a quel movimento.

***

Sull’«utilità di nuovi studi che riprendano una linea di ricerca storica incentrata sulle politiche di contrasto all’odio messe effettivamente in atto» e sulla necessità di «una più profonda comprensione delle condizioni che possono favorire, concretamente, il successo di tali politiche» si conclude la bella introduzione di Fotia. Non potrei essere più d’accordo, per questo voglio chiudere questo mio «dialogo» con il volume da lei curato con un’immagine che viene dagli albori del «secolo americano», quando ancora il laboratorio della storia del Novecento traboccava di possibilità. Si tratta dell’immagine dei soldati dell’esercito dell’Unione, tra le cui file ci sono anche i Buffalo Soldiers, il battaglione di soldati neri, ovviamente segregati, che nel 1898 attraversano l’ex Sud confederato per arrivare in Florida e da lì imbarcarsi per liberare Cuba. È la rappresentazione di un’apparente «riconciliazione nazionale», con ex generali nordisti ed ex generali confederati uniti nella missione di liberare Cuba dal giogo coloniale spagnolo. In realtà sarà una riconciliazione politica ed economica, a spese dei diritti civili e umani degli afroamericani: il regime di apartheid nel Sud è appena iniziato e il Nord l’ha accettato di buon grado.

 

SOSTIENI MICROMEGA



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Mondo

L’ultima tornata elettorale in Turchia ha visto l’Akp di Erdoğan scendere a secondo partito su scala nazionale.

Al G7 ribadita la linea della de-escalation: fermare l’attacco su Rafah e disinnescare le tensioni tra Israele e Iran.

L'attuale conflitto "a pezzi" e le sue ragioni profonde e spesso sottaciute.