Povera cultura, ancora tagli sugli investimenti

Il governo decide per una diminuzione delle spese per l'ambito culturale. Ma la cultura è una trama da cui non si può prescindere perché organizza ogni forma sociale. È dalla cultura che dipende la nostra capacità di elaborare strategie di uscita dalle crisi. Ecco, dunque, su cosa non investiamo.

Emanuela Marmo

L’Italia, si dice, è il paese della bellezza. L’offerta artistica e culturale effettivamente ne condiziona la competitività. Stato, regioni, province e comuni hanno espresso politiche culturali differenti e non tutti i modelli hanno funzionato. Tuttavia – forse, grazie alla stessa proliferazione degli strumenti finanziari e di raccordo, che hanno posto opportunità e condizioni – gli operatori di settore si impegnano a rispondere in modo programmatico ai deficit valoriali e di visione, superando tanto il modello del “grande evento”, quanto gli standard del mero intrattenimento. Sempre più organizzazioni – pubbliche, private, autogestite, no profit – hanno cominciato ad affermare concetti come “gestione” dello spazio, “processo” di produzione, “ciclo”, proponendo una miriade di esperienze, in continuità o in alternativa alle programmazioni tradizionali, dirigendo i progetti non solo al grande pubblico, ma alla cittadinanza più prossima. Parliamo di un insieme di professionalità che lavora, fa impresa o comunità in sinergia con tutte le altre filiere dell’economia.

Questo lavoro quanto ha fruttato alla nostra economia? Fondazione Symbola e Unioncamere, con la collaborazione del Centro Studi delle Camere di commercio Guglielmo Tagliacarne, insieme alla Regione Marche e all’Istituto per il Credito Sportivo pubblicano ogni anno un rapporto: “Io sono cultura”. Il report 2019 informa che i dati erano positivi e in crescita per tutto il sistema produttivo culturale e creativo: con oltre 90 miliardi di euro (+1% sul 2018) rappresentava il 5,7% del valore aggiunto nazionale. Il mondo dello spettacolo ha prodotto, prima della pandemia, un valore aggiunto di quasi 16 miliardi di euro (1% del PIL), in cui ben 8,2 miliardi di euro solo dallo spettacolo dal vivo. Nel 2019 risultava impiegato nel settore il 5,9% del totale degli impiegati in Italia: il dato era positivo non solo rispetto all’anno precedente (+1,4%), ma all’occupazione complessiva nazionale (+0,6%). Questi dati diventano particolarmente significativi se si considera che l’incidenza delle attività culturali e creative su altri settori dell’economia è pari al 15,8%.

Durante la pandemia, questo settore così promettente, è stato il primo ad andare in quarantena e l’ultimo a esserne tirato fuori. L’importanza rivestita dalla cultura era sulla bocca di tutti, eppure nessuno sapeva come salvarla. Un settore (270.318 imprese e 40.100 realtà del terzo settore, 11,1% del totale delle organizzazioni attive nel non profit) che nel 2019 era in crescita, nel 2021 presentava perdite in termini di ricchezza prodotta del -3,4%, mentre quelle dall’intera economia si attestavano al -1,1%.

La crisi ha colpito in particolare il mondo dello spettacolo, proprio quello che produceva di più. Ciò in buona parte dipende dal fatto che la base occupazionale di questo ambito è caratterizzata da contratti prevalentemente atipici. Un modo di leggere il peso riconosciuto a un settore è di analizzarne il sistema del lavoro: attraverso la regolarizzazione dei contratti e il riconoscimento delle professioni, lo Stato si rende presente. Com’è noto, i lavoratori dello spettacolo hanno dovuto lottare per il diritto di discontinuità: la legge di bilancio 2023, prima della sua approvazione, non ne prevedeva il finanziamento. Le proteste che si sono susseguite presso la sede del Ministero dello Sviluppo economico sono state raccolte dal Pd. L’emendamento firmato da Matteo Orfini ha portato all’indennità di discontinuità, inserita dalla Commissione Bilancio della Camera con uno stanziamento di 100 milioni. La questione, ad ogni modo, si inserisce in un quadro più generale: i lavoratori e le lavoratrici del settore culturale non godono della medesima considerazione delle altre categorie. Vi suggerisco di approfondire il tema, ascoltando la conferenza stampa di Anna Laura Orrico intitolata Lavorare nel settore culturale oggi: contratti, condizioni e prospettive, che si è svolta in Camera dei deputati lo scorso martedì 17 gennaio. Durante la conferenza sono stati presentati e commentati i risultati del questionario che da quattro anni l’associazione Mi riconosci somministra a lavoratori e lavoratrici del settore culturale.

In questa sede, tenendo presente la stretta connessione tra settore culturale e capacità del paese di produrre ricchezza, desideriamo conoscere le previsioni del governo.

Le spese complessive in termini di competenza autorizzate dal disegno di legge di bilancio 2023-2025 autorizza, per lo stato di previsione del MIC – Ministero della cultura presentano un decremento in termini assoluti pari a 63,5 milioni di euro, ossia a 58,6 milioni in termini di spese finali. Si tratta di un’ulteriore riduzione della quota percentuale designata all’ambito culturale, che si abbassa dallo 0,5% del 2022 allo 0,4% della spesa finale del bilancio statale del 2023. Sebbene aumentino le quote per i beni archivistici e museali, diminuisce di 51,8 milioni la quota stanziata al “Sostegno, valorizzazione e tutela del settore dello spettacolo dal vivo”, diminuisce di 1,9 milioni la già esigua dotazione per “Tutela e promozione dell’arte e dell’architettura contemporanea e delle periferie urbane”.

Il potenziale socioeconomico del settore culturale mi pare, dunque, sottostimato. Lo svantaggio è solo economico? Il contributo della cultura ai processi democratici è incalcolabile; come essa costruisca benessere attraverso lo sviluppo valoriale della società, lo vediamo ad esempio nella politica dei presidi culturali a bassa soglia che, elargendo piattaforme/spazi di produzione culturale e di socializzazione costruite su partenariati eterogenei, si confronta con i temi della sostenibilità, rinsalda il welfare con la liberazione e la condivisione di competenze e conoscenze, innova i luoghi non necessariamente con la tecnologia, ma soprattutto potenziandone le tipologie e le finalità d’esperienza.

Il sociologo Jeffrey Alexander dice che la cultura è una trama da cui non si può prescindere perché organizza ogni forma sociale. È da questo “settore”, in definitiva, che dipende il nostro archivio mentale ed emotivo, la nostra capacità di elaborare strategie, di usare le risorse saggiamente: strategie di uscita dalle crisi. Ecco, dunque, su cosa non investiamo.

 

 

Foto: @travelflow Canva



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