Precari e senza diritti, i camici grigi della sanità alzano la voce

Durante la pandemia i medici specializzandi hanno riempito i vuoti lasciati dai tagli alla sanità pubblica. Costretti a lavorare in condizioni di insicurezza e precarietà, da mesi lottano per difendere i loro diritti.

Rita Cantalino

Il personale medico italiano è candidato al Nobel per la pace perché “è stato il primo nel mondo occidentale a dover affrontare una gravissima emergenza sanitaria, nella quale ha ricorso ai possibili rimedi di medicina di guerra combattendo in trincea per salvare vite e spesso perdendo la vita”. Siamo stati i primi al mondo ad affrontare il Covid19, e i nostri medici hanno messo serietà e abnegazione nel condurre una battaglia per cui nessuno era preparato. Nemmeno il nostro servizio sanitario, reduce da anni di tagli, razionalizzazioni, spending review e blocco del turn over. Le risorse materiali per affrontare la battaglia hanno palesato la propria insufficienza dai primissimi giorni, quando mancavano guanti e mascherine, ma anche le risorse umane non erano sufficienti, e una serie di figure sono intervenute a integrare le risorse già strutturate nel Servizio Sanitario Nazionale.Si tratta di figure ibride, “camici grigi”, medici specializzandi e una galassia di altre figure più o meno precarie: decine di migliaia di giovani che si sono messi a disposizione e nell’ultimo anno hanno provato a riempire i vuoti lasciati da anni dalle forbici degli ultimi governi, dei diktat europei e della generale svalutazione del pubblico.

“Camici grigi” sono i medici che, terminato il proprio corso di studi, non riescono a entrare in un canale formativo post-laurea, che sia una specializzazione o una formazione in medicina generale, in genere costretti a sopravvivere con impieghi precari o ad andare all’estero. Si tratta di più di quindicimila risorse umane all’anno negate al nostro servizio sanitario, e al diritto alla salute dei cittadini.

Gli specializzandi, medici abilitati alla professione, hanno ultimato il proprio percorso di studi e sono entrati in un nuovo percorso di specializzazione a durata variabile (tra i quattro e i cinque anni a seconda delle scuole) che li formerà a divenire gli specialisti che vorranno essere.

Giuridicamente, si tratta di figure in formazione e non di lavoratori, anche se di fatto spesso garantiscono l’esistenza di servizi di molti dipartimenti e unità operative, universitari e non, che, senza il loro contributo, non riuscirebbero a reggere la carenza di personale, ed effettuano vere e proprie prestazioni. Il loro contratto di formazione prevede un impegno di 38 ore settimanali, sul modello del CCNL della dirigenza medica, ma questo limite è spesso e volentieri sforato per effettuare attività non inerenti alla formazione specialistica – come le rotazioni nei reparti covid nell’ultimo anno – e senza la possibilità di vedere riconosciuti gli straordinari visto che, in termini di legge, sono ritenuti “studenti”, e pertanto ricevono una borsa di studio che gli consente di dedicarsi a tempo pieno alla formazione.

Federico Martelloni, docente di Diritto del Lavoro dell’Università di Bologna, definisce lo specializzando “un oggetto misterioso”, “figura paradigmatica anche dal punto di vista normativo, perché è sospesa tra formazione a pagamento e lavoro non pagato”. Questa ambiguità si traduce nell’assenza di contrattualizzazione specifica, e quindi di tutele tipiche dei rapporti di lavoro subordinati (malattia, maternità, infortuni) e di diritti come quello allo sciopero.

Già nel marzo 2020 il Consiglio dei Ministri ha aumentato il numero di borse di specializzazione e previsto l’assunzione di 5.000 medici, 10.000 infermieri e 5.000 operatori sociosanitari, tutti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa che sarebbero durati al massimo sei mesi, con eventuale possibilità di proroga a seconda dell’andamento dell’emergenza. In un momento di massima urgenza, e in cui si palesava la grave carenza di personale, si è deciso di rendere ulteriormente precario il percorso di queste figure. La rete Chi si cura di te ha denunciato più volte le condizioni in cui erano costretti a lavorare: mancanza di formazione, assenza di dispositivi di protezione individuale, interruzione pressoché totale del proprio percorso di formazione. Le informazioni sono state raccolte attraverso due indagini, a marzo e tra novembre e dicembre 2020, che hanno evidenziato “assoluta discrezionalità, subalternità e mancanza di tutele cui i medici in formazione specialistica, con la loro condizione lavorativa parasubordinata, e i corsisti di medicina generale, sono soggetti quotidianamente, anche e soprattutto al di fuori della corrente emergenza”.

La prima consultazione, svolta tra il 12 e il 18 marzo 2020, è stata condotta da Chi si cura di te e ASVER (Associazione degli Specializzandi di Verona): nel questionario (anonimo) era richiesto di descrivere le condizioni di lavoro di quelle prime settimane di collaborazione. Il campione analizzato, composto da 203 medici e proveniente da 11 regioni (Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Sicilia, Toscana e Veneto): medici in formazione, camici grigi, medici di medicina generale impegnati in ospedali universitari e non, RSA, ambulatori e altre strutture territoriali.

Nel 57% dei casi non c’è stata alcuna formazione specifica per la gestione del SARS-CoV2 e in molti hanno lamentato la mancanza di aggiornamenti dopo il primo iniziale momento.

La gestione dei Dispositivi di Protezione non è stata da meno, solo il 4% ha ricevuto una mascherina FFP2, appena l’1% occhiali protettivi. C’è chi ha ricevuto mascherine di carta, chi fogli elettrostatici; un quarto degli intervistati (26%) ha denunciato l’assenza totale di DPI e comportamenti discriminatori: erano forniti al personale medico inquadrato, sebbene anche i medici in formazione stessero svolgendo le medesime attività. Le mascherine chirurgiche, quando c’erano (59%), erano da riutilizzare per diversi giorni, con il rifiuto di sostituirle in caso di danneggiamento. Le testimonianze sono inquietanti: “Sono specializzanda in chirurgia toracica. Il mio reparto è nello stesso padiglione delle medicine interne e terapia intensiva che accolgono i pazienti COVID-19 positivi. Nei reparti sono finite anche le mascherine chirurgiche, dopo aver utilizzato la stessa mascherina per tre giorni sono arrivate le nuove mascherine: panni per spolverare. Vergognoso”. “In molti reparti viene fornita una sola mascherina a testa a settimana. Vado al supermercato e trovo la cassiera con gli FFP3 forniti dall’azienda, vado in ospedale e vedo situazioni del genere”.

Chi entrava in contatto con positivi e sospetti “ha fatto il tampone, ma è rimasto a lavoro fino all’esito del test”; l’eventuale quarantena, così come contrarre il virus, sono stati gestiti arbitrariamente, talvolta come malattia, talvolta come infortunio.

In ogni caso, l’80% dei medici ha denunciato l’assenza totale di indicazioni su come comportarsi, anche quando si trovavano a lavorare in settori diversi da quelli del proprio ambito di studio, e una generale “profonda disorganizzazione, creazione di protocolli e rispetto degli stessi solo dopo molteplici solleciti e richiami da parte degli specializzandi”.

La seconda consultazione è stata realizzata dall’Associazione degli Specializzandi dell’Università di Perugia (ASUP), Associazione degli Specializzandi di Verona (ASVER), Medici Specializzandi Lombardi (MESLO), e Chi si cura di te.

Il questionario è stato diffuso tra il 18 novembre e il 3 dicembre 2020 e hanno risposto 314 medici distribuiti in 15 regioni, anche se la prevalenza del campione (40%) era veneta. Il 77% degli intervistati ha lavorato in reparti covid: la maggioranza lo ha fatto in maniera obbligatoria e il 42% non proveniva dall’area infettivo-respiratoria. Il coinvolgimento dei medici è avvenuto a prescindere da quale anno di formazione stessero affrontando e spesso non c’è stata alcuna formazione (circa un terzo degli intervistati). Il 31% ha denunciato una differenziazione nella distribuzione di DPI tra personale strutturato e specializzandi, mentre il 5% non ha affatto ricevuto DPI, riservati solo ai medici inquadrati. Anche questa indagine denuncia la sospensione delle attività formative (83% dei casi) e la mancanza di protocolli specifici per la gestione del rischio contagio.

Salvatore Mazzeo, responsabile nazionale della Rete, ha raccontato le proteste e le richieste che hanno portato alle autorità. “A marzo 2020, un centinaio studenti di medicina, camici grigi, medici specializzandi e corsisti di medicina generale da tutta Italia si sono riuniti per Gli stati generali della formazione medica e hanno elaborato una proposta di rinnovamento sia del percorso formativo sia di rifinanziamento e riorganizzazione del servizio sanitario nazionale”.

Il percorso ha visto svariati momenti di discussione e vari livelli di interlocuzione con il governo, incontrando in più occasioni i rappresentanti dei ministeri dell’Università e della Salute, e con le amministrazioni regionali: ci sono state una serie di vittorie, come il fatto che in alcune regioni anche gli specializzandi e le altre figure “ombra” del servizio sanitario sono riusciti ad accedere (anche se una tantum) alle primalità a integrazione del reddito riservate al personale sanitario, “Tuttavia – spiega Mazzeo – la mancanza di una risposta concreta alle nostre rivendicazioni ha portato la nostra associazione a promuovere, a dicembre 2020, il primo stato d’agitazione dei medici e delle mediche precarie e in formazione”.

Le richieste si concentrano sulla stabilità dei percorsi, esigendo una “risoluzione dell’imbuto formativo con una programmazione basata sui fabbisogni di salute della popolazione e non sulle attuali carenze strutturali o di bilancio, con un rapporto 1:1 tra lauree e contratti di formazione post-laurea”, la stabilizzazione dei “camici grigi”, la contrattualizzazione all’interno del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro della dirigenza medica. I medici precari e in formazione hanno inoltre chiesto una rappresentanza sindacale effettiva, che ne tuteli gli interessi, il lavoro e la formazione.

Anche negli ultimi mesi le reti di giovani medici hanno dovuto alzare la voce: “Abbiamo condotto la battaglia per impedire che l’attività di somministrazione dei vaccini fosse inserita nei percorsi formativi di tutti gli specializzandi. Un tentativo di reperire manodopera a costo zero a scapito della preparazione dei futuri specialisti. La vittoria da noi conseguita ha permesso sia di riconoscere ai medici in formazione il lavoro svolto sia agli enti pubblici di disporre di un ampio bacino di professionisti per la somministrazione dei vaccini”.

Si tratta di vittorie effettive ma anche simboliche: per la prima volta queste figure sono state considerate nella loro dignità professionale e hanno avuto voce in capitolo sulle decisioni che riguardano la propria carriera. Resta da vedere se, a emergenza finita, ci sarà da parte del governo e delle varie amministrazioni la capacità di trasformare il Servizio Sanitario, adeguarlo alle esigenze reali del Paese e non soltanto a quelle di far quadrare i bilanci. Fino alla prossima emergenza.

 

(credit foto ANSA/TINO ROMANO)



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