Pro-vita obbligatori nei Consultori: la crociata riparte, stavolta dal Piemonte

Un assessore di Fratelli d’Italia ripropone la storica battaglia della destra – e della Chiesa – della tutela della vita fin dal concepimento. Sulla pelle delle donne.

Maria Mantello

La libertà non è un dono. E non mancano mai i reazionari pronti a cogliere l’occasione per abbattere quanto è stato conquistato. Lo sanno molto bene le donne, che stanno moltiplicando le manifestazioni contro l’istituzionalizzazione dei pro-live nei Consultori e negli ospedali della Regione Piemonte. L’operazione trova le premesse nel DGR 21-807 del 15 ottobre 2010 che prevedeva l’inserimento negli albi delle Asl per le sole associazioni che contemplassero la “presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento”. Clausola bocciata dal Tar e che adesso viene riproposta dall’assessore Maurizio Raffaello Marrone.

Politicamente formatosi nell’area dell’estrema destra, ne ha attraversato le metabolizzazioni da Alleanza Nazionale a Fratelli d’Italia, scalando gli scranni dell’amministrazione locale: a Torino in un consiglio circoscrizionale e poi in quello comunale, fino ad approdare alla Regione Piemonte, dove si è distinto nel contrastare la distribuzione nei Consultori della Ru486, e a vietarne la somministrazione in Day Hospital. Un bel colpo per la Regione che, prima in Italia, aveva sperimentato e approvato il suo impiego!

Dal 27 aprile 2020, Marrone è capo di sei assessorati, tra cui Affari legali e Contenzioso. Da qui sta cercando di ripristinare il prerequisito per l’accesso agli albi regionali “della finalità di tutela della vita fin dal concepimento”. Una sfida, che certo gli potrebbe garantire avanzamenti politici.

Ed eccolo il Fratello d’Italia Marrone alle prese con riproposizione della famigerata clausola a cui porta un’aggiunta. Una parvenza di attenuazione, che in effetti ne estende la gravità. Al vincolo della “presenza nello statuto della finalità di tutela della vita fin dal concepimento” viene infatti aggiunto: “E/o di attività specifiche che riguardino il sostegno alla maternità e alla tutela del neonato”.

Con questa congiunzione/opzione l’azione dei pro-live si allarga nel tempo e nello spazio con un raggio d’azione indefinito. La tutela della vita fin dal concepimento, quindi, diventa misura e accredito per sviluppare progetti di sostegno psicologico e sociale in una rete di strutture convergenti e parallele, legittimate anche nella loro azione di propaganda pubblicitaria con tanto di spazi messi a disposizione nelle diverse strutture delle Asl. Perché la rete sia diffusa e capillare occorre assicurarsi ovviamente un pienone di pro-live. Di qui la necessità di riaprire di volta in volta anche i termini di scadenza per la loro registrazione negli elenchi Asl.

Tutto sembrava filare liscio… Ma, accidenti ai movimenti femministi, che pure col Covid sono riusciti a incrementare la protesta, tanto da far notizia oltre le pagine di cronaca locale. Ma, cosa ancora più importante, a rimettere al centro l’originario valore di senso (che adesso si vorrebbe azzerare) di quei Consultori familiari istituiti con la Legge 405 del 29 luglio 1975.

Una legge chiara ed essenziale nei suoi brevissimi otto articoli. Sorta di Manifesto laico di democratizzazione sociosanitaria, si prefigge di sostenere “il singolo”, “la coppia”, “la famiglia” per “conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti”.

Sulla base quindi del rispetto delle pluralistiche visioni del mondo di ciascuno, i Consultori non possono essere strutture eticamente preordinate, bensì di informazione, consulenza e sostegno alle scelte che ognuno ha il diritto di compiere. E quindi chiamate a fornire quel “servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità” e “per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile”, dando “informazioni idonee a promuovere, ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso”.

Una legge dalla parte dell’autodeterminazione delle donne. Per una società più giusta. Più libera. Più democratica. Perché più laica. Negli anni Settanta, divorzio, nuovo diritto di famiglia, parità sul lavoro, erano il frutto anche e soprattutto di quella rivoluzione copernicana che il femminismo andava operando, proprio aggredendo patriarcato e maschilismo e quella stereotipia sessista dei ruoli. Nel privato e nel collettivo. Anche il tabù della maternità come condanna era allora contestato e messo in crisi. E il motto: “Io sono mia!”, gridato in tante manifestazioni, era l’emblema di quel riappropriarsi di sé, che vedeva nei Consultori un punto di riferimento determinante per avere informazioni e assistenza sanitaria su sessualità, metodi contraccettivi, cure per la sterilità. Per avere, se necessario, le certificazioni previste per l’interruzione volontaria della gravidanza.

Certamente i Consultori hanno contribuito a far conquistare alle donne la consapevolezza dell’importanza di gestire la propria autonomia. E sono diventati nel tempo un punto di riferimento per la coppia e la famiglia.

Non è un caso che l’assalto alla legge 194 passa dallo smantellamento di fatto dei consultori, che controriformati diverrebbero la succursale di una chiesa che non ha perso il vizio del controllo delle coscienze. Tra il 2005 e il 2006, questa chiesa l’abbiamo vista all’opera entrare direttamente in campo lanciando anatemi contro le leggi che “violano la vita” facendo fallire con l’astensione il referendum per l’abrogazione della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita (poi azzerata da una miriade di sentenze). Ma quanto tempo ci è voluto!

Nel 2005 sulla scia di quella “vittoria” contro la legge 40, si innestò tuttavia la campagna per impedire l’interruzione volontaria di gravidanza presa direttamente in mano dall’allora Ministro della Repubblica, Francesco Storace, per tentare di far entrare il volontariato pro-live  nei consultori e negli ospedali. E questo mentre negli ospedali si moltiplicavano i medici obiettori.

In parallelo si concertavano lugubri rituali per il materiale abortito, che veniva equiparato a persona nella nuova definizione di “prodotti del concepimento “. Ad inaugurarli la Regione Lombardia con una sua modifica nel 2007 del regolamento funerario e cimiteriale. E potremmo continuare con i rosari e veglie organizzate vicino agli ospedali…. e tanto altro ancora. Fino alla recente scoperta a Roma al cimitero Flaminio di croci con il nome della donna a cui sarebbe corrisposto il “feto abortito”.

Una guerra in difesa della vita, la chiamano. Di fatto una guerra alle donne da rimettere sotto tutela. Avendo gioco facile in un Paese dove, mentre purtroppo la sinistra si è andata polverizzando, c’è chi risuscita la destra revanscista di gerarchie patriarcali e sessiste che nel sigillo del precetto trovano la loro consacrazione per riportare le donne al ruolo di fattrici. Azzerando quel processo di conquiste di cui fa parte la conquista della 194. Ma sembrano pochi a comprendere davvero la portata della partita in gioco. Che non riguarda soltanto le donne. Come tanti uomini hanno compreso da tempo!

 

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