A margine del processo Depp-Heard: il danno della spettacolarizzazione

Per usare le parole del capo della critica cinematografica del New York Times, Antony Oliver Scott, è stato uno spettacolo “sconcertante, poco edificante e triste”.

Monica Lanfranco

Una grande lezione di giornalismo arriva dalle pagine del New York Times, a firma di Antony Oliver Scott, che di recente ha scritto una lunga e articolata riflessione sul processo per diffamazione Johnny Depp-Amber Heard, definito dal commentatore “uno spettacolo singolarmente sconcertante, poco edificante e triste”.

In Italia non se n’è scritto molto, per questo rimando all’articolo di Nadia Somma per una dolente lettura della gogna mediatica che si è abbattuta sull’attrice ex compagna di Depp. Ciò che vorrei provare a fare è restituire uno sguardo laterale sulla vicenda, ovvero, dando per scontati i fatti e il verdetto, ragionare degli effetti sulle generazioni più giovani di questa ennesima spettacolarizzazione tramite i social, effetti che ho visto in diretta e incarnati nelle settimane precedenti alla conclusione (per ora) del processo.

Per farlo mi servo di un brano tratto dall’ultimo libro di Byung-chul Han Le non cose: Come abbiamo smesso di vivere il reale (Einaudi). Scrive il filosofo coreano: “L’entropia informativa con la sua rapidissima crescita, vale a dire il caos informativo, ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla la differenziazione tra vero e falso. Ora le informazioni circolano senza alcun appiglio con la realtà, all’interno di uno spazio iperreale. Anche le fake news sono informazioni, probabilmente più efficaci dei fatti comprovati. Ciò che conta è l’effetto di breve periodo. L’efficacia sostituisce la verità”. Ecco, questo fenomeno di sostituzione l’ho visto inverarsi nelle reazioni ‘tifo da stadio’ di un gruppo di giovani donne che, ironia della sorte, si trovavano con me per una settimana di formazione sulla violenza sessista che si esprime nei social media ormai in modo quotidiano e consueto. Le ragazze, tra i 17 e i 30 anni, trascorrevano buona parte del tempo libero dai lavori di gruppo e di approfondimento guardando sui cellulari le registrazioni del processo. Concentratissime e come rapite dalla vicenda, seguita giornalmente alla stregua di una serie tv, nessuna di loro aveva dubbi: Depp era vittima di una campagna diffamatoria da parte della giovane ex compagna, certamente in cerca di denaro e notorietà.

Quando mi sono accorta di questa epidemia collettiva di dipendenza dalle registrazioni del processo ho cercato di capire. Ho chiesto loro dove stesse il motivo di tanto fascino in una vicenda impastata da violenza e abusi, di scambi di accuse tra due esseri umani (uno dei quali notissimo e potente) che un tempo si amavano: perché un tifo da stadio senza appello per un uomo che aveva già dimostrato di essere un abusante, e come mai loro, che erano giovani donne come Amber Heard, la reputavano per certo falsa, subdola, e mendace? Le risposte sono state: perché lui è ricco, famoso, lei vuole guadagnare infamandolo ed è a caccia di denaro facile. A nulla è servito sottolineare che la donna aveva denunciato comprovati atti di violenza domestica; che senza dubbio non era la tipica vittima sottomessa e senza macchia, che aveva anche lei compiuto gesti violenti in quella che era chiaramente una relazione tra due persone instabili, che era inquietante l’accanimento e l’odio unilaterale via social contro di lei, che aveva l’effetto di far scomparire le responsabilità dell’uomo nella vicenda, sia quella umana che quella giudiziaria.

Il disallineamento cognitivo è stato evidente: mentre le ragazze si schieravano contro la giovane stavano partecipando ad una formazione su violenza domestica e sessismo.

Era come se quello che vivevano nella realtà di quei giorni non avesse contatti con ciò che vedevano sugli smartphone. L’impatto emotivo confusivo che il seguire quel processo causava loro generava paradossi: le sentivo parlare di Depp come di uno di famiglia, come accade con gli e le influencer (persone solitamente prive delle qualità e competenze costruite con studio e costanza, forse per questo idoli da imitare e idolatrare): lui era Johnny, lei una poco di buono, usando un eufemismo.

Come fa notare Scott “lui è Edward Mani di Forbice, Jack Sparrow, Hunter S. Thompson, Gilbert Grape. Lo abbiamo visto malizioso e volubile, ma mai veramente minaccioso. È qualcuno che abbiamo visto crescere, dal giovane rubacuori in 21Jump Street al vecchio lupo di mare nel franchise Pirati dei Caraibi. I suoi peccatucci fuori campo (il bere, le droghe, il tatuaggio Winona Forever) sono stati parte del rumore di fondo della cultura pop per gran parte di quel tempo, insieme agli scandali e agli imbrogli che sono stati lo spettacolo da baraccone di Hollywood dall’era del muto”.

È un fatto: lo stereotipo del mascalzone simpatico non è reversibile per le donne: la mascalzona non è prevista, nemmeno immaginabile; dunque, una giovane donna che sostiene che il mascalzone è un violento non può dire la verità.

Ancora per usare le parole di Han “una volta ridotta a informazioni consumabili, la realtà stessa diventa uniforme. La realtà quale informazione rientra nell’ambito del to like, non in quello del to love. Il mi piace inonda il mondo. La negatività dell’Altro è invece insita in ogni esperienza intensa. La positività del like trasforma il mondo in un inferno dell’Uguale”.

Questo passaggio è diventato reale, e ne ho avuto la prova tangibile, quando ho mostrato al gruppo in formazione (c’erano donne e uomini provenienti da Spagna, Romania e Grecia, oltre che dall’Italia) il duro documentario The price of pleasure, cruda inchiesta sull’industria della pornografia e le vaste connessioni di questa con l’odio verso le donne, la prostituzione e la costruzione, fin dall’infanzia, di una sessualità priva di empatia e predatoria. Le reazioni del gruppo sono state di ansia, rifiuto, all’inizio anche di fastidio perché il video era ‘troppo lungo’ (essendo la soglia dell’attenzione ormai ridottissima tra le giovani generazioni, proprio a causa della fruizione velocissima dei contenuti dai telefoni e della quasi assenza di lettura, che ovviamente richiede tempo e staticità).

Pur se non direttamente legato al processo il documentario mostra la cultura sessista, machista e violenta che è alla base della produzione del porno, cultura che ha costituito il sotto testo della gogna social contro la Heard. Così, dopo l’anestesia del processo virtuale condiviso con milioni di persone il tornare alla realtà, attraverso il documentario, risultava insopportabile: la narcosi causata dall’abitudine a percepire come reale solo quello che passa per il telefono rendeva eccessivo e scomodo il riapparire della materialità dei corpi.

Ancora Han annota che con l’uso ormai unico e massivo del cellulare “non avviene alcun contatto fisico con la realtà, derubata della propria presenza. Noi non percepiamo più le oscillazioni materiali della realtà. La percezione perde corpo. Lo smartphone derealizza il mondo. E così la realtà ci appare sempre più sfuggente e confusa, piena di stimoli che non vanno oltre la superficie. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale. Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud”.

A scuola, nei primi mesi del 2022 quando si è riaperta la possibilità di tornare a incontrare classi e docenti, ho verificato quanto fosse stata tossica la permanenza in solitudine di ragazzi e ragazze per ore davanti al computer e al cellulare, senza o quasi la compagnia di persone adulte, tranne le lezioni online. Sebbene siano trascorsi solo due anni questi sono bastati perché la propaganda online dei gruppi Mra (mens’right activist) e incell (entrambi con sfumature diverse teorizzatori dell’odio misogino verso le donne, che preferirebbero uomini ricchi e belli, privando del sesso e dell’attenzione ritenuta dovuta a chi non ricade nelle prime due categorie). In una classe un ragazzo di 18 anni, di fronte all’insegnante, si è alzato in piedi dal fondo dell’aula e mi ha raggiunta urlando gli slogan tipici di questi movimenti, mentre in un’altra un suo coetaneo ha lasciato l’aula dopo la visione del discorso di Emma Watson, (portavoce della campagna Heforshe che tende a includere gli uomini per cambiare la mentalità sessista) e per tre volte ha urlato ‘levati dal cazzo’ di fronte a tre insegnanti e a tutta la classe. Non è questa la sede per fare una analisi della significatività della frase scelta dal giovane per l’insulto e la conseguente delegittimazione di una donna adulta in quel momento in veste di docente: vale però come esempio per riflettere sulla crucialità del riportare le emozioni, il corpo e le relazioni al centro del discorso pubblico, a partire dalla scuola.

Altrimenti, per dirla ancora una volta con le parole di Han “Il mondo diventa irreale, viene derealizzato e disincarnato. L’ego che va potenziandosi non si lascia più toccare dall’Altro: si limita a specchiarsi sul dorso delle cose. Il fatto che l’Altro scompaia è davvero un evento tragico. Eppure, si compie in maniera così impercettibile che non ne siamo nemmeno consci. L’Altro come mistero, l’Altro come sguardo, l’Altro come voce scompare. Privato della propria alterità, l’Altro si degrada al livello di oggetto disponibile, da consumare”.

Credit Image: © Cliff Owen/CNP via ZUMA Press Wire



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