Proprietà intellettuale e vaccini: l’Ue deve uscire dall’immobilismo

L’Unione Europea deve valutare limitazioni dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini che consentano una tutela più forte ed efficace del diritto alla salute.

Giuseppe Mazziotti

Lo scorso 5 maggio, il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha sorpreso il mondo dichiarando di voler sostenere, nella persona della sua rappresentante presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), Katherine Tai, la proposta di sospensione, per almeno un anno, degli obblighi di proteggere brevetti e altri diritti di proprietà intellettuale sui vaccini per il Covid-19. La notizia è stata subito ripresa dai media di tutto il mondo e fatta passare, soprattutto in Italia, come una “liberalizzazione” dei brevetti.

Se mai fosse approvata nella versione statunitense, si tratterebbe in realtà di un’esenzione, richiesta originariamente, e in forma più ampia, da Paesi in via di sviluppo, da obblighi derivanti dalle regole globali in materia di proprietà intellettuale. Dell’esenzione farebbero uso non tanto i Paesi più ricchi, che i vaccini posso produrli o pagarli e i cui brevetti resterebbero intatti, ma quelli a basso reddito. Paesi quali l’India e il Sudafrica, che hanno promosso l’iniziativa nell’ottobre 2020, chiedono essenzialmente la libertà, per almeno un anno, di produrre, acquistare e importare non solo vaccini ma anche strumenti diagnostici e altre tecnologie (per esempio, le valvole per i ventilatori delle terapie intensive) senza doversi preoccupare del rispetto di diritti di proprietà intellettuale che, inevitabilmente, si riflettono sul livello dei prezzi di questi beni.

Il cambio di strategia del governo americano, a livello globale, non deve essere sovrastimato. Bisogna considerare che il governo degli Stati Uniti, solo all’inizio di marzo 2021, aveva votato contro la proposta di India e Sudafrica, insieme agli altri Paesi ricchi. Inoltre, la decisione del Presidente Biden, limitata ai vaccini, giunge quando il suo Paese ha già sviluppato una massiccia campagna di immunizzazione, tenendo ferme peraltro misure poco solidaristiche quali il blocco all’esportazione di vaccini e dei materiali necessari alla loro produzione.

L’Unione Europea, dal canto suo, ha mantenuto ferma la propria posizione in sede di OMC, ribadendola durante il consiglio europeo di Oporto, l’8 maggio. I governi europei ritengono infatti che una sospensione dei diritti di proprietà intellettuale non solo non aumenterebbe la produzione di vaccini e di altri strumenti di lotta alla pandemia, ma scoraggerebbe l’innovazione e un’adeguata remunerazione degli investimenti in settori ad altissima specializzazione industriale.

Vaccini beni comuni?

C’è unanimità a livello internazionale nel ritenere che la ricerca e lo sviluppo di vaccini efficaci, approvati da molteplici autorità sanitarie nazionali o sovranazionali, nell’arco di un solo anno dalla comparsa del virus, sia un risultato straordinario. Ci sono ancora enormi divergenze, però, tra Paesi e anche tra le varie organizzazioni internazionali su come si possa favorire un aumento e una diffusione esponenziale dei vaccini in grado di immunizzare una popolazione mondiale di quasi 8 miliardi di persone in tempi ragionevoli.

L’esempio dell’India è emblematico. Fino a poche settimane fa, poteva definirsi la “farmacia del mondo”, considerato il primato delle sue imprese nella produzione globale di farmaci. Produceva così tanti vaccini, su licenza AstraZeneca da poterne offrire ingenti quantità ad altri Paesi. Precipitata la situazione sanitaria, anche per l’assenza di adeguate misure di contenimento da parte del governo federale, i vaccini prodotti in India si sono rivelati ben lontani dal coprire anche solo una piccola porzione del fabbisogno interno.

Da mesi ormai l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sostiene che l’unica soluzione efficace per l’immunizzazione della popolazione mondiale, nel pieno di una pandemia, sia un vaccino inteso come bene comune o pubblico, accessibile a tutti senza discriminazioni geografiche ed economiche. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, oltre un anno fa, si era espressa negli stessi termini, e così ha fatto, seguita dal primo ministro italiano, Mario Draghi, all’indomani della “svolta” dell’amministrazione Biden. A queste dichiarazioni, però, non hanno ancora fatto seguito decisioni efficaci, o anche idonee in astratto, a perseguire quel risultato.

Le soluzioni, a livello internazionale, affinché certi farmaci salvavita diventino beni comuni, accessibili a tutti senza discriminazioni geografiche e di censo, non sono mai state del tutto esplorate. Non esistono regole, nei trattati attualmente in vigore, che prendano in considerazione una situazione di emergenza sanitaria qual è una pandemia, per sua natura senza precisi confini geografici. Non è quindi una sorpresa che l’OMS si prepari a proporre un trattato (futuro) sulle pandemie, che consenta – tra le altre cose – di sospendere o allentare, anche temporaneamente ma in tempi rapidi, gli obblighi di protezione brevettuale di nuovi farmaci derivanti, ormai per il mondo intero, dal diritto del commercio internazionale.

Se un bene è, nei trattati, soggetto strutturalmente a un potere privato, come si fa a renderlo un bene pubblico? La soluzione ideale e di lungo periodo sarebbe quella di permettere o incoraggiare la condivisione della conoscenza scientifica a livello internazionale e rendere l’accesso a farmaci e terapie salvavita gratuito o quantomeno sostenibile per tutti i Paesi del mondo. Sono questi gli obiettivi primari di istituzioni e consorzi pubblico-privati quali il Medicines Patent Pool di Unitaid (Nazioni Unite), il Technology Access Pool (TAP) dell’OMC e l’iniziativa Covax dell’alleanza internazionale GAVI.

A livello governativo, le scelte dettate dall’urgenza del momento sono state assai diverse. Paesi quali Cina, Russia e Cuba hanno fatto in modo che i vaccini sviluppati da centri o agenzie poste sotto il loro controllo fossero e restassero, fin dall’origine, di proprietà pubblica. Certo, si tratta di processi e risultati, sia scientifici sia industriali, che riflettono la poca trasparenza dei governi che li gestiscono e l’assenza di controlli sanitari rigorosi, come quelli garantiti dall’EMA (European Medicines Agency). Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Israele e altri Paesi ad alto reddito si sono affidati invece all’industria farmaceutica. Lo hanno fatto accettando di buon grado la logica incentivante e premiale dei brevetti, che ha portato alle soluzioni obiettivamente più innovative, quali i vaccini di Pfizer-BioNTech e Moderna, entrambi basati sul concetto rivoluzionario di RNA messaggero. Il Regno Unito, dal canto suo, fresco di autonomia dalla UE, oltre ad acquistare i vaccini più pregiati a prezzi di mercato, ha finanziato centri di ricerca autoctoni, come quello dell’Università di Oxford che, anche con risorse proprie e vista la sua natura di ente morale (charity), ha imposto al proprio partner industriale e commerciale (AstraZeneca) la vendita di vaccini a vettore virale a prezzo di costo.

È solo una questione di brevetti?

Sin dalla nascita dell’OMC (1994), in circostanze eccezionali ciascun Paese può ridurre, nel proprio territorio, il potere delle aziende farmaceutiche obbligandole, tramite un atto del governo o di altra autorità, a permettere la produzione di un farmaco protetto, e ritenuto urgente, da parte di una o più aziende terze. È un meccanismo denominato licenza ‘obbligatoria’ che presuppone, per il Paese che voglia utilizzarlo, un obbligo di remunerazione del titolare del brevetto. Quest’eccezione è stata ampliata da accordi, conclusi a Doha nel 2001 e formalizzati nel 2005, che permettono a singoli Paesi di emanare licenze obbligatorie non solo per produrre farmaci generici ma anche per importarli ed esportarli, a sostegno di altri Paesi in stato di necessità e non in grado di produrli. Proprio per essere pronta a rispondere a questo tipo di richieste, nel 2006 l’Unione Europea approvò un regolamento che disciplina il ricorso a questo strumento a fronte di emergenze sanitarie.

Chiunque conosca il funzionamento dei sistemi di proprietà intellettuale sa che la logica del brevetto si fonda essenzialmente su un principio di trasferimento tecnologico da un soggetto privato (l’inventore) a un ente pubblico, che è l’ufficio brevetti di ciascun Paese in cui si chieda tutela legale. In ambito farmaceutico ciò significa che, leggendo la “ricetta” di un vaccino, e quindi le modalità di composizione e produzione del principio attivo, come descritti nella domanda depositata presso un ufficio brevettuale, un’azienda dello stesso settore – con le adeguate conoscenze tecniche, le tecnologie e i materiali necessari – dovrebbe riuscire a riprodurlo. Se non ci riesce, i brevetti sui vaccini per il Covid-19 potrebbero non essere concessi sul presupposto che il trasferimento di conoscenza che la legge impone è incompleto e troppe informazioni (know how) riguardanti la produzione restano segrete.

Inoltre, è importante sottolineare come le leggi in vigore concedano alle imprese farmaceutiche, oltre al brevetto, un altro diritto esclusivo sui propri farmaci, trattato alla stregua di un segreto industriale. È previsto infatti che le aziende acquisiscano un diritto esclusivo sui test e dati clinici necessari alla produzione di un farmaco nuovo, secondo standard di sicurezza sanitaria vagliati da autorità quali, in Europa, l’ormai ben nota EMA. Questa esclusiva, che non rientra tra i diritti di proprietà intellettuale, pur assomigliandovi molto, impedisce la produzione di un generico prima del decorso di un periodo che, nel diritto dell’Unione Europea, va dagli otto ai dieci anni dal momento della messa in commercio. È di tutta evidenza che, se anche uno o più governi dovessero limitare o sospendere temporaneamente i brevetti sui vaccini, queste misure sarebbero insufficienti alla produzione di generici senza l’accesso a test e studi clinici che ne permettano una rapida autorizzazione alla produzione.

Quale ruolo per l’Unione Europea?

L’immobilismo dell’Unione Europea, oltre che dei governi nazionali, in materia di brevetti e altre esclusive concesse dalla legge alle imprese farmaceutiche certamente non aiuta l’Europa ad adottare misure di contrasto efficace della pandemia in corso, sia all’interno del proprio territorio sia a livello internazionale. Pur sostenendo dall’inizio l’idea dei vaccini come bene comune, l’Unione Europea non è stata in grado di mantenere le promesse di un anno fa.

La strategia di acquisti della Commissione UE

La via meramente contrattuale e per nulla trasparente che la Commissione UE ha deciso di percorrere, col solo supporto della sua burocrazia, accentrando nelle proprie mani tutti i poteri di acquisto e fornitura di vaccini da destinare alla popolazione degli Stati membri, si è rivelata un fallimento. Non è chiaro, inoltre, vista la secretazione dei relativi contratti, in che modo i contributi pubblici elargiti dall’Unione Europea a imprese farmaceutiche, e di cui non è dato sapere con esattezza, si siano tradotti in benefici per la collettività. Ne è conseguito un gravissimo ritardo nelle campagne di vaccinazione in molti Paesi UE, compresa l’Italia, cui i governi non hanno saputo porre rimedio. Il confronto con i tempi certi e rapidi garantiti dai governi degli Stati Uniti e del Regno Unito si è fatto via via più imbarazzante.

L’assenza di politiche efficaci nell’emergenza sanitaria in cui ci troviamo ha posto le basi per un grave e lunghissimo stato di eccezione ai principi di libera circolazione delle persone e dell’unità del Mercato Unico, autentici capisaldi dell’Unione Europea. Ne sono derivati danni incalcolabili per le economie europee e il sacrificio di diritti fondamentali delle persone imposti dalle autorità senza adeguate giustificazioni e senza un ragionevole limite temporale. Ironia della sorte, la Commissione è arrivata a proporre l’introduzione di un certificato ‘verde’ per ristabilire la libertà di circolazione, conscia probabilmente dei tempi lunghi dell’immunizzazione dei propri cittadini.

Il mancato controllo di settori fondamentali

Non sarebbe corretto, però, dar la colpa dei gravi ritardi delle campagne di vaccinazione alla sola Unione Europea. Bisogna riconoscere che la Commissione e gli altri organi dell’Unione si sono trovati a gestire l’emergenza pandemica senza avere il controllo di due settori fondamentali per lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini, e cioè i sistemi sanitari, che, com’è noto, sono rigorosamente statali, e il sistema dei brevetti.

Quest’ultimo settore non dipende direttamente dall’Unione Europea, ma da un’organizzazione internazionale (European Patent Organisation), assai più vasta della UE e distinta da essa. Pur avendo permesso un’armonizzazione sostanziale delle leggi nazionali in materia, quest’organizzazione, che controlla anche l’Ufficio Brevetti Europeo, non ne ha garantito la completa uniformità, soprattutto per ciò che riguarda le limitazioni dei brevetti e le licenze obbligatorie. Non v’è dubbio che l’Unione possa intervenire su questo fronte per coordinare misure urgenti dei suoi Stati.

Pur essendosi espressa, in piena pandemia, a favore delle licenze obbligatorie a livello internazionale, l’Unione Europea non ha mai discusso di iniziative intergovernative o legislative che potessero rendere il ricorso a questo strumento più agevole e unitario all’interno dell’Unione. Né ha mai chiarito se e in che misura fosse auspicabile, per ragioni umanitarie e non solo, incoraggiare l’applicazione del regolamento del 2006 che permette ai Paesi UE di far ricorso a licenze obbligatorie per far produrre ed esportare farmaci salvavita a Paesi extraeuropei in stato di necessità. Su questo fronte, dunque, i vari governi hanno quindi potuto procedere in ordine sparso.

Gli strumenti sotto il diretto controllo europeo

Pur non avendo il controllo dei sistemi sanitari e brevettuali, l’Unione Europea controlla due settori d’importanza fondamentale per ampliare l’accesso ai vaccini nell’attuale pandemia: il diritto farmaceutico di competenza dell’EMA e il diritto antitrust (o della concorrenza).

Sul primo fronte, si può solo immaginare quale sarebbe stato il caos regolamentare e sanitario se una pandemia paragonabile all’attuale fosse scoppiata prima della creazione di un’autorità qual è l’odierna EMA (2004) e nel pieno vigore del sistema di autorizzazioni gestito delle varie agenzie nazionali. In questo ambito, EMA non poteva fare di più e meglio, avendo messo in atto procedure ad hoc e a tempo di record per consentire l’immissione sul mercato dei vaccini contro il Covid-19. Ciò che si può ancora fare è una modifica del regime di protezione delle esclusive di mercato che consentono alle aziende di bloccare la produzione di generici mediante il divieto di condivisione di test e dati clinici. Bisognerebbe prevedere che, in circostanze eccezionali come le attuali, tali esclusive possano essere ridotte o sospese per rendere subito efficaci le limitazioni temporanee dei brevetti.

Sul secondo fronte, la Commissione UE ha ampi poteri d’indagine e ispezione che le permettono di accertare, sanzionare e porre fine a eventuali abusi di posizione dominante da parte delle aziende produttrici o a forme di cartello tra aziende che rallentino la produzione o l’immissione sul mercato di quote più rilevanti di vaccini e si traducano in gravi ritardi nella fornitura ai Paesi UE. Controlli rigorosi su questo fronte potrebbero essere assai più efficaci delle azioni legali che sia la Commissione UE sia alcuni governi nazionali (tra cui l’Italia) hanno minacciato contro le case produttrici per inadempimento dei contratti.

Per concludere, è della massima importanza che, in circostanze eccezionali qual è quella che stiamo vivendo, l’Unione Europea, nell’ottica, sbandierata a parole, dei ‘vaccini come bene comune’, valuti più attentamente possibili limitazioni dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini che consentano una tutela più forte ed efficace del diritto alla salute. Si è visto come l’indisponibilità di beni essenziali, quali i vaccini, porti a conseguenze nefaste sia per i diritti fondamentali di centinaia di milioni di persone sia per l’economia e il Mercato Unico Europeo.

È doveroso, quindi, che – a livello internazionale – le autorità europee e i governi nazionali valutino seriamente la proposta di India e Sudafrica, rispondendo all’amministrazione Biden e che – all’interno dell’Unione – usino tutti gli strumenti a loro disposizione, incluse le licenze obbligatorie, per sfuggire al ruolo di semplici controparti, peraltro insoddisfatte e dolenti, dell’industria farmaceutica.

(Credit Image: © Benoit Doppagne/Belga via ZUMA Press)



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