Psycho non abita più qui. Il disagio mentale nella serialità televisiva contemporanea

In serie tv come “Dr. House”, “Elementary”, “Detective Monk” e “Dirt”, il tema del disagio, non solo mentale, è trattato in maniera innovativa rispetto al cinema mainstream.

Ivan Bormann

Apriamo con la sigla iniziale della sesta stagione del “Dr. House“. House è in una stanza in isolamento al Mayfield Psychiatric Hospital. La sequenza, in stile videoclip con la musica dei Radiohead, descrive il primo passaggio che House deve compiere per redimersi, nel doppio episodio “Broken”, a seguire. La disintossicazione dal Vicodin che lo ha portato a episodi psicotici e quindi nell’Ospedale Psichiatrico.

Le scene sono strazianti: il dolore dell’astinenza, la contenzione, il trovarsi in mezzo ai pazienti psichiatrici. Durante l’episodio, però, House incredibilmente farà un percorso di redenzione. Dopo una prima parte di provocazione continua al personale e di sfiducia, si avvicinerà ad alcuni pazienti, riuscirà a empatizzare e, attraverso questo percorso, ad affrontare i propri fantasmi. Fantasmi che vanno al di là della psicosi da Vicodin e che ci raccontano il dr. House che abbiamo sempre conosciuto: tossicodipendente da Vicodin con la scusa del dolore alla gamba, narcisista ego maniaco incapace di relazioni serene e di empatia verso i pazienti e i suoi colleghi, geniale nel risolvere i più intricati casi medici. Un personaggio sfaccettato, come gli altri di cui andremo a parlare, non positivo o negativo, ma interessante, affascinante, tragico e ironico, irriverente, fastidioso, antipatico ma con spiragli di umanità. Chiaramente caratterizzato da disturbo della personalità oltre che da narcisismo patologico e dipendenza.

Nella serialità tv statunitense il tema del disagio, mentale ma non solo, viene spesso trattato in maniera molto contemporanea e innovativa rispetto a quanto fatto dal cinema mainstream americano o dal cinema e dalla serialità italiana, dove nel migliore dei casi prevale un atteggiamento pietistico, nel peggiore si ricorre ancora agli stereotipi del pazzo pericoloso e del “mostro”.

In molta serialità statunitense e non solo il disagio invece comincia a essere parte integrante del personaggio. Esso spesso svolge sì una funzione narrativa e lo caratterizza molto, ma viene raccontato con un realismo nuovo, con i suoi lati tragici di sofferenza ma anche con le possibilità per il personaggio di trovare un posto nella società, di svolgere un ruolo significativo, di avere relazioni, di essere parte della comunità, amato e voluto bene o anche odiato, comunque di essere in relazione, anche se, come nel caso di House, le relazioni sono di frequente distorte e malate. Questo essere in relazione scavalca lo schermo e permette, se non l’identificazione e l’immedesimazione (ciascuno ha i suoi piccoli fantasmi), la fascinazione e l’interesse da parte dello spettatore.

Sono diversi i modi in cui questo nuovo approccio si manifesta. Accenneremo qui solo ad alcuni ma il tema meriterebbe una trattazione più approfondita.

Una modalità diffusa è quella che riguarda le manifestazioni, a vari livelli, dei disturbi dello spettro autistico in serie poliziesche e thriller, dove i tratti autistici permettono al protagonista un’acutezza di osservazione, un’attenzione ai particolari e una intelligenza tale che lo portano alla risoluzione dei vari casi. Spesso il disturbo prende la forma della sindrome di Asperger, un autismo ad alto funzionamento. Fatto curioso è ritrovarne i precursori nella letteratura classica giallistica. Hercules Poirot era sicuramente autistico, così come Sherlock Holmes, descritto anch’egli con le tipiche caratteristiche di cui abbiamo detto, più una mente brillante aiutata dalla cocaina. Anche lui presenta difficoltà di relazione con il prossimo che lo rendono fragile, tenero agli occhi dello spettatore nelle crepe in cui riesce ad avvicinare il prossimo.

Ci sono serie che riadattano Sherlock in chiave moderna. In “Elementary” i personaggi vengono stravolti, si mantiene l’origine inglese ma trapiantata negli States del protagonista, ex eroinomane anziché cocainomane, con forti difficoltà relazionali se non con poche persone fidate, una intelligenza estrema e una grande attenzione ai particolari. Curiosa la scelta di Watson, sua tutor nel percorso di cura che poi resta al suo fianco e lavora con lui. Una donna indipendente e intelligente che fa da argine a molte possibili cadute di Sherlock. Anche qui il personaggio conquista lo spettatore per l’arguzia della battuta sagace e per il lato tragico e ironico del carattere.

Il “Detective Monk” è invece una serie che vira il poliziesco verso la commedia. A partire dalla sigla, allegra e spensierata, impariamo a conoscere un uomo in fase di ripresa, distrutto dalla morte della moglie, chiuso in casa per anni, ora tornato a lavorare come detective grazie alle solite capacità di intuizione, attenzione al particolare e intelligenza nel risolvere i casi. Da sottolineare la bravura del protagonista, Tony Shaloub, che riesce a impersonare un personaggio che viaggia tra il comico e il ridicolo – per le sue manie, per il terrore dei microbi e gli immancabili fazzolettini per disinfettarsi ogni volta che tocca qualcuno o qualcosa – e l’aspetto tragico del non riuscire a uscire dai suoi loop autistici: spegnere la luce, rientrare, riaccenderla e spegnerla e andare avanti così per dieci minuti. La novità di Monk sta nel tono della narrazione e nel riuscire a coniugare aspetti comici e tragici del disagio mentale del protagonista, che comunque instaura relazioni significative con la sua infermiera, che prende le veci della sua collaboratrice, e con il capo della polizia che diventa suo stretto amico.

Bates Motel”, il prequel di Psycho, è una splendida serie con attori fantastici che evidenzia la riscossa degli attori e degli sceneggiatori nella serialità, rispetto alla centralità dei registi nel cinema. In “Bates Motel” abbiamo un giovane con un leggero disturbo della personalità, molto dolce nelle sue fragilità, che ci fa empatizzare con la sua tormentata vicenda famigliare: una madre bellissima e seducente, l’attrice Vera Farmiga, che instaura con il figlio un rapporto di complicità e di simbiosi, ma che mostra anch’essa segni di disturbi psichici soffocati. Potremmo quindi annoverare la serie in questa nuova onda di racconto, uno “Psycho” non mostro ma condotto alla follia dall’ambiente, dalla società, da ciò che attraversa. Se non fosse però che la serie, risultando ancora più inquietante, introduce in vari episodi una precoce predisposizione del ragazzo agli scatti violenti e alla psicosi che ci lasciano interdetti. E affascinati.

Chi mette invece al centro una specifica diagnosi, tanto cara al cinema mainstream, è “United States of Tara”. Come ci dice il titolo geniale, si tratta del disturbo dissociativo di personalità multipla. Nel cinema mainstream abbiamo casi continui nel thriller, e non si sa perché una delle personalità debba essere per forza un assassino. Nella realtà si tratta di un disturbo davvero raro, per fortuna. “United States of Tara” ce lo racconta nei termini di una commedia divertente: una madre con due figli, una famiglia che vive con serenità la condizione della madre, i figli che esprimono poco più di un leggero imbarazzo ai cambi di personalità radicali della protagonista. Il tono è appunto quello delle situazioni farsesche e comiche che derivano da questo disturbo, niente di più. Nessun efferato omicidio, nessuna personalità malvagia che cerca di prevalere, solo una persona semplice, con una famiglia, che cerca di vivere come meglio può la sua condizione.

Ci sono poi in altre serie dei personaggi marginali, come il fotografo schizofrenico nella serie “Dirt” ambientata nel circuito del gossip e della moda. Fotografo geniale, che talvolta rifiuta di prendere le sue medicine e cade quindi in crisi psicotiche. In un mondo che immaginiamo spietato e dettato da ritmi frenetici, la direttrice della rivista ha un rapporto di totale rispetto e pazienza con il suo fotografo preferito, si prende cura di lui, gli dà il tempo per riprendersi e tornare a fare il suo lavoro.
Anche qui attenzione, non giudizio, inserimento nel tessuto sociale.

Questa tendenza prende piede anche in serie europee, per brevità ne citiamo una tedesca, “Babylon Berlin”. La serie, tratta dai libri del giallista Volker Kustcher, è ambientata tra il 1929 ed il 1934 e ha come protagonista Gereon Ruth, commissario di polizia alle prese con intrighi internazionali post e pre bellici, pornografia, la vita notturna della Berlino del tempo, l’ascesa del nazismo. Fin da subito il protagonista ci fa intravvedere nel suo passato dei traumi mai risolti, famigliari prima e poi personali, legati alla guerra. Soffre, si direbbe oggi, di stress post traumatico, ha dei flashback potenti che lo disorientano e che tiene a bada con uno strano farmaco che ottiene sottobanco da una farmacia equivoca.

Spiace che l’Italia della rivoluzione permanente basagliana – fatta di non giudizio, cura, presa in carico totale e inserimento nella comunità – non sia ancora riuscita a permeare la narrazione seriale di questi temi, spesso lasciati al pietismo o alla demonizzazione.
Si spera si possa trovare presto una via autonoma italiana allo storytelling del disagio mentale nella serialità mainstream, cosa che si è fatta sicuramente in alcuni film d’autore, ma qui premeva affrontare il racconto popolare che oggi in maniera prevalente assume la forma della serie tv.



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