Se il campo di battaglia è la disinformazione strategica

Il divario tra il budget militare Usa e quello russo è enorme. Per questo da anni Putin ha spostato le sue armate sul campo della propaganda informatizzata.

Pierfranco Pellizzetti

Se – per dire così – volessimo fare “l’esegesi delle fonti” della catastrofe umanitaria ucraina in atto, dovremmo metterci in coda dietro a Luciano Canfora, Diego Fusaro, Massimo Cacciari, oltre alla buonanima del mio amico Giulietto Chiesa, e sgranare il rosario delle responsabilità pregresse. Che – quasi fosse un alibi – in qualche misura ci conducono fino alle scelte compiute in questi giorni da Putin, in preda al delirio indotto dal nazionalismo pan-russo, nella struggente nostalgia biografica per il regime sovietico imploso: dalle colonizzazioni ideologiche liberiste post 1989 provenienti da Chicago non meno dei contemporanei saccheggi dell’argenteria di famiglia, partiti sia dai circoli finanziari di New York come anche dalle medie nomenklature del potere sovietico, fino ai miopi opportunismi degli strateghi americani; che hanno approfittato dell’estrema debolezza congiunturale russa (a prescindere dagli arsenali di armi atomiche) per fare la stessa operazione che Nikita Krusciov aveva tentato nel 1962: piazzare missili a Cuba, trascinando il mondo intero a due passi dal baratro di un conflitto mondiale.

Un’operazione cerchiobottista perfetta per salvarsi l’anima girando attorno al problema vero. E cioè che l’unico soggetto meritevole di ricevere la solidarietà dell’opinione mondiale è il popolo ucraino sotto minaccia di sterminio.

Tutto quanto va contro questa ennesima pulizia etnica annunciata merita di essere sostenuto “whatever it takes” (direbbe un politico desaparecido), perché significa tutelare il diritto alla sopravvivenza di donne e uomini, vecchi e bambini. Un’operazione che rischia di estendersi all’intera l’area imperiale della fu URSS.

Ma per fermare una tale follia, in cui tutti i soggetti che hanno una parte in copione – a partire dall’Unione Europea – sono al di sotto dei livelli minimi di credibilità (tanto che per mediare tra le parti si sono ipotizzate le soluzioni più fantasiose e improbabili, come richiamare in campo la pensionata Angela Merkel o affidarsi al papa gesuita terzomondista, infido agli occhi nordamericani, declinare l’offerta del mercante saraceno di profughi Taiyyp Erdogan per ripiegare sul neo-premier israeliano) bisogna rendersi conto che – per certi versi – siamo già entrati nella Terza Guerra Mondiale. E pure da qualche anno. Da quando le necessità di riequilibrare le forze in campo è sfociata in invenzione strategica.

Ossia quando il rinascente espansionismo putiniano si è definitivamente reso conto dell’insormontabilità dei rapporti di forza in ambito militare tradizionale. Il divario tra il budget militare USA (settecento-sedici miliardi di dollari) pari a dieci volte quello russo; i 13mila velivoli bellici americani rispetto ai quattromila a disposizione del Cremlino; il 25% di personale combattente di Washington in più rispetto a Mosca.

Fu così che si è verificato lo spostamento delle armate di Putin nella quarta dimensione: quella virtuale. Un po’ come nella Grande Guerra – allestendo l’aereo armato di mitragliatrice – si scoprì il cielo come nuovo terreno di scontro oltre la terra e il mare. Ora è il fronte interno che si intende colpire diffondendo odio e destabilizzando il tessuto sociale attraverso l’infezione delle menti tramite propaganda informatizzata; infondendo diffidenza reciproca e sindromi complottiste.

Non ce ne siamo accorti, ma i due campi di battaglia della disinformazione strategica sono stati nel 2016 il referendum sulla Brexit e l’anno seguente l’assolutamente non pronosticata elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. In cui emergono tracce palesi di hakeraggi putinini. Il tutto grazie a strumenti d’offesa di fabbricazione anglo-sassone: il braccio armato operativo britannico di Cambridge Analitica e le aziende americane al silicio, dedicate a coltivare e a raccogliere la materia prima per manipolare il consenso: i Big Data.

Difatti, proprio mentre si guerreggiava nello spazio internettiano, si segnalavano contatti tra inglesi e ambasciata russa per creare anche in Ucraina un movimento stile Brexit. Sebbene ad oggi non si sia fatto avanti uno whistleblower sugli aspetti virtuali nella campagna contro Kiev. Anche se suona a traccia di una disinformazione in atto il reiterarsi dell’accusa contro Zelensky di nazismo. Mentre inizia a fare capolino quella antisemita di sionismo.



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