“Putin e putinismo in guerra”. Intervista a Orietta Moscatelli

In attesa degli sviluppi primaverili del conflitto russo-ucraino, abbiamo chiesto un commento all'analista di Limes e caporedattrice esteri di Askanews.

Roberto Rosano

Mentre gli ucraini si dicono al lavoro per la creazione di un tribunale per i crimini di guerra e la messa in atto di una severa controffensiva, i russi attaccano, in ventiquattro ore, nove delle ventiquattro regioni ucraine: Sumy, Chernihiv, Kharkiv, Kherson, Mykolaiv, Zaporizhzhia, Dnipropetrovsk, Luhansk e Donetsk. In attesa degli sviluppi primaverili del conflitto, abbiamo chiesto un commento ad Orietta Moscatelli, autrice di Putin e putinismo in guerra (Salerno editrice, 2022), analista di Limes e caporedattrice esteri di Askanews, con focus specifico nell’area post-sovietica.
Dottoressa Moscatelli, dopo aver visto saltare il piano di una guerra lampo, aver perso la metà dei ricavi da gas e petrolio, essere stato costretto alla difensiva, aver fatto segnare all’avversario due nuovi ingressi Nato sul proprio confine, Putin sa ancora chiaramente cosa vuole?
Sarebbe facile rispondere che sa cosa non vuole, cioè la sconfitta. Più complesso leggere un disegno che certamente non corrisponde ai piani iniziali e che probabilmente finirà ulteriormente modificato. Di recente, ho trascorso tre settimane a Mosca a incontrare persone di ogni tipo di opinione riguardo a questa guerra, alcune convinte che il presidente sia impazzito, alcune che credono nella missione storica di Putin. E più ti avvicini ai piani alti del potere, più ti senti dire che “bisognerà tornare quantomeno a discutere di neutralità dell’Ucraina”. Non che ai piani alti abbiano le idee chiarissime, ma hanno delle convinzioni e temo che le perseguiranno a lungo.

Il rapporto stilato dal Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea) di Helsinki ci conferma che l’Occidente continua a importare greggio russo passando attraverso Paesi che non applicano le sanzioni. Chi sostiene che oggi sia impossibile fare a meno di una grande economia come la Russia, così profondamente integrata negli scambi internazionali, ha ragione?
È evidente che non c’è la volontà di farlo, soprattutto nell’immediato, mentre lo sganciamento dalle forniture russe comporta reali difficoltà, o quantomeno complicazioni. Secondo il rapporto da lei citato, gli Stati Uniti figurano al secondo posto tra i Paesi che importano carburante ottenuto raffinando petrolio russo. Farne a meno sarebbe probabilmente possibile, ma avrebbe conseguenze sul mercato interno, in questo caso americano, anche se la lista di chi approfitta delle riesportazioni di greggio russo è lunga.

Questi espedienti indeboliscono davvero le sanzioni, come si dice?
Diciamo che non compromettono l’obiettivo primario delle oltre 10mila sanzioni varate dopo l’invasione dell’Ucraina, ovvero indebolire la Russia e il regime putiniano, ridimensionarne le capacità bellica sul medio e lungo termine e contenerne il ruolo nel conflitto che fa da sfondo alla guerra in Ucraina, quello tra Stati Uniti e Cina. E visto che siamo passati dal contingente al geopolitico, è chiaro che il cambiamento epocale ottenuto con le sanzioni è la fine della cooperazione energetica tra Russia ed Europa, innanzitutto con la Germania. Il resto è cronaca di piccoli inciampi a margine.

Le soluzioni indicate dal centro studi Crea di proibire l’import in Europa di carburanti provenienti da raffinerie che ricevono greggio russo o costringerle a documentare l’origine sono davvero fattibili o la contraddizione è inevitabile?
È in teoria fattibile, in pratica le contraddizioni sono destinate a rimanere. La Russia si sta adoperando per rendere più agili i meccanismi per aggirare le sanzioni, in particolare quelle energetiche. Se andiamo a vedere l’elenco dei Paesi che approfittano del carburante di origine russa, vi troviamo indizi per pensare che le cose non cambieranno radicalmente: Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone sono i primi quattro, tutti attivi promotori delle sanzioni e anche molto attenti alle loro dinamiche economiche interne. Ribadisco, non credo si tratti tanto della imprescindibilità delle forniture russe, quanto della convenienza a chiudere un occhio e anche due di fronte a un tornaconto e alla possibilità di evitare eccessive complicazioni.

In questo libro, parla molto delle contraddizioni di questa guerra, forse più delle ragioni. Quali sono le più profonde?
La prima domanda che ha fatto, in buona parte, riassume i paradossi di questa guerra, che anche i russi faticano a comprendere, figuriamoci noi. L’invasione doveva innanzitutto servire a tenere lontano l’obiettivo Nato per Kiev e, un anno dopo, la Nato coordina l’azione bellica in Ucraina e si è rafforzata in Europa con uno sbilanciamento del suo asse verso Nord-Est, coronato dall’adesione della Finlandia, e in attesa della Svezia. L’Ucraina uscirà devastata da questo conflitto, comunque vada, e riemergeranno forse tensioni interne che la guerra ha silenziato. Però, avrà una sua identità rafforzata, inevitabilmente connessa all’aggressione russa: esattamente il contrario di quanto auspicato e teorizzato da Putin.

Potremmo continuare, la Russia d’altronde è una grande fabbrica di paradossi storici…
Quello più profondo, se non il più evidente, è che probabilmente a Mosca, a fine 2021, pensavano che gli Stati Uniti avrebbero cercato un compromesso, per evitare che la Federazione Russa scivolasse ulteriormente verso Est, in braccio alla Cina. Gli Usa hanno invece ragionato in termini di indebolimento dell’avversario come investimento per il futuro. Oltre che un investimento, è una scommessa.

Lei ha mai pensato che la Russia potesse avere una collocazione in un ordine occidentale a guida americana?
È il punto fondamentale. Però, a mano a mano che questa guerra va avanti e vede entrare in scena attori come la Cina, comincio a riflettere in modo diverso. Negli ultimi trent’anni è cambiato il mondo, sono cambiati i presupposti per gli equilibri alla base dell’ordine occidentale a guida americana. E la Russia, dallo sbraitare e battere i piedi…

Cosa che ha fatto regolarmente dal 2007…
È passata ai fatti, prima con la breve guerra in Georgia, poi con l’annessione della Crimea in risposta alla totale perdita di controllo su Kiev nel 2014, e l’anno scorso mandando i carri armati in Ucraina. I cambiamenti in corso negli equilibri globali sono in qualche modo la molla che ha portato la Russia a scattare, a ragionare nei termini spesso usati a Mosca: o adesso, o mai più. Gli scricchiolii del cosiddetto ‘ordine unipolare’ sono stati tradotti in finestra di opportunità dai vertici russi, che altrimenti avrebbero continuato a battere i piedi. Poi probabilmente al Cremlino sperano ancora di essere chiamati a più miti consigli, ma quest’ultima annotazione va oltre l’analisi geopolitica, è una mia personale convinzione.

Come valuta l’operato delle intelligence coinvolte in questo conflitto?
I britannici si sono dimostrati i veri primi della classe: ci sono molti motivi per pensare che siano stati i loro servizi a intercettare i piani di Mosca e a far credere ai russi che fosse possibile metterli in pratica. L’intelligence della Federazione Russa ha mostrato tutte le falle che può avere solo una struttura profondamente erosa dalla corruzione: quando le risorse messe a disposizione finiscono chissà dove, e si inventano storie per far credere che tutto sia a posto…
La logica dei villaggi Potemkin che venivano allestiti con sole facciate e solo per il passaggio del corteo imperiale.

Questo è indubbiamente un conflitto tra due nazionalismi e i nazionalismi, ci insegna la storia, alla lunga sono sempre incompatibili. La soluzione del conflitto si avrà quando verranno meno entrambi?
I nazionalismi emergono e diventano pericolosi nei momenti di crisi, di cambiamento. Quando il passato, e soprattutto come lo si narra, diventa una copertina protettiva pronta all’uso, o se vogliamo uno strumento per compattare il fronte interno. Nel caso russo e ucraino vorrei sperare che il conflitto sia risolto prima della scomparsa dei rispettivi nazionalismi, che implicherebbe la scomparsa dei due Stati.

Quanto devono gli ucraini a Elon Musk e alla sua SpaceX?
Molto. Infatti i russi, lo scorso autunno, hanno minacciato di promuovere i satelliti commerciali utilizzati per aiutare gli ucraini a obiettivi legittimi, anche se la guerra dei satelliti non è nell’interesse di nessuno, neppure dei russi.

Il crollo d’immagine della Russia, come grande potenza militare, comincia ad essere percepito anche nella madrepatria? Qual è lo stato attuale del fronte interno?
È un quadro molto eterogeneo, che tutto assieme tiene, anche se sotto la superficie di una apparente normalità. C’è grande fibrillazione. Sei russi su 10 si informano tramite la tv e la tv racconta loro che la Russia vincerà, anche se in Ucraina sta combattendo con l’intera Nato. Almeno tre di quei sei russi accendono il televisore perché hanno bisogno di sentirsi dire che tutto va bene e che la potenza militare russa sta salvando il Paese dall’attacco dell’Occidente. Quindi c’è un mix di convinzioni incrollabili, di accettazione (gli altri tre di quei sei), di crescenti timori. Anche di opposizione alla guerra, che è consistente nelle grandi città, meno altrove. Il punto di potenziale rottura del fronte interno è la mobilitazione generale, che Putin chiaramente cerca di evitare in tutti i modi, o perlomeno tenta di rinviare. Il punto di rottura senza ritorno sarebbe la sconfitta: i russi sono in grado di sopportare quasi tutto, ma non la sconfitta.

Allo stato attuale dei fatti, crede nell’ipotesi di un allargamento del conflitto?
Credo che non possa essere escluso e penso che gli Stati Uniti davvero siano molto impegnati ad evitare che avvenga, i britannici meno, e non scommetterei contro un possibile coinvolgimento diretto della Polonia. Da parte russa è la Polonia il sorvegliato speciale, un po’ per analisi degli equilibri regionali, un po’ per riflesso automatico, per quella storica, genetica ostilità che esiste a Varsavia come a Mosca. Se gli americani si sfileranno per ragioni interne, e per concentrarsi sulla Cina, il pericolo di un ampliamento del conflitto fuori dai confini ucraini crescerà.



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