Putin, il boss che volle farsi zar

Accreditare l’immagine di Putin come zar, oltre ad alimentare il suo io già sufficientemente ipertrofico, è un abuso della storia il cui principale difetto è quello di nascondere una realtà molto più prosaica: Putin è il boss di una congerie di oligarchi.

Fabio Armao

Dire che Putin è uno zar è come affermare che il mafioso è un uomo d’onore: in entrambi i casi stiamo dando credito all’autorappresentazione che dei criminali danno di sé stessi. Nel caso delle mafie, questo fraintendimento, accreditato ancora pochi decenni fa da fior di studiosi, ha avuto conseguenze a dir poco nefaste sulla comprensione della loro vera natura di parassiti sociali, la cui violenza non è altro che la misura della loro codardia e della loro inutilità. Oggi attribuire al presidente russo le stimmate di un Pietro il Grande rischia di generare un equivoco che potrebbe condurci alla terza guerra mondiale.

La guerra in Ucraina è la drammatica dimostrazione che il potere politico, qualunque potere politico, non può sottrarsi troppo a lungo alla verifica della legittimità della propria pretesa di dominio; e, in concreto, la prova della fragilità del potere di Putin, il boss di una banda di oligarchi che, dalla caduta del muro di Berlino a oggi, si sono accaniti a depredare il proprio Paese, facendo della seconda potenza mondiale il massimo esempio al mondo di liberismo predatorio. Come ha ben scritto su MicroMega+ Marco d’Eramo, «qualche ingenuo pensò che la fase del gangsterismo degli anni Novanta in Russia somigliasse all’era dei robber barons della seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti. Ma allora i robbers barons americani investirono i loro profitti in America, ne finanziarono le università, le biblioteche, mentre i gangster dell’oligarchia russi non hanno fatto altro che esportare capitali e impoverire la Russia».

Dalla sua salita al potere, Putin – per evocare Max Weber – ha fatto scempio del principio legale-razionale modificando la Costituzione a proprio uso e consumo, riducendo a farsa le elezioni (inventandosi il ticket con il comprimario Medvedev) e, soprattutto, incarcerando qualunque oppositore si dimostrasse in grado di impensierirlo. Ha dovuto puntare, quindi, sul suo carisma, attingendo peraltro a vecchi stereotipi quali l’uomo-che-si-è-fatto-da-sé, il campione palestrato di arti marziali, il funzionario del Kgb depositario di impensabili segreti, tutti caratteri che dubito possano avere molta presa sulle giovani generazioni di russi. Il paradosso è che quanto più la sua luce sbiadiva agli occhi di masse interne sempre più impoverite dalla corruzione e dal latrocinio, tanto più invece risplendeva agli occhi dei leader occidentali. Lo so, non è il momento di recriminare sulle nostre colpe, ma ricordiamo almeno che fino all’altro ieri Putin veniva accolto nei Paesi democratici non con le cautele diplomatiche che sarebbe stato necessario adottare nei confronti di un autocrate, ma con gli onori (l’affetto persino) riservati agli amici (degli amici).

Negli ultimi anni Putin ha scommesso anche sulla tradizione, riscoprendo le origini zariste della Grande Russia, con il contributo della parte più nostalgica della Chiesa ortodossa, ansiosa di poter rivendicare nuovamente il mandato divino del proprio leader. Quello zarista, tuttavia, era un impero in un mondo di imperi, all’interno del quale la solidità della tradizione come fondamento di legittimità era garantita dalla presenza di una monarchia – ovvero di una delle istituzioni politiche allora più diffuse e antiche, da occidente a oriente – e di una società ancora basata sull’idea di sudditanza e non di cittadinanza. Putin, tuttavia, non ha alle spalle una famiglia reale (e neppure, sia detto per inciso, un vero partito, sul quale invece può ancora contare Xi Jinping in Cina); mentre il suo popolo, per quanto intimorito dalla repressione, non è più disposto ad accettare come naturale la condizione di suddito.

Accreditare l’immagine di Putin come zar, oltre ad alimentare il suo io già sufficientemente ipertrofico, è un abuso della storia il cui principale difetto è quello di nascondere una realtà molto più prosaica: Putin – lo ripeto – è il boss di una congerie di oligarchi, presenti anche all’interno delle forze armate, che riesce ancora a dominare, ma di cui non può fidarsi fino in fondo. Ha scatenato la guerra in Ucraina non solo per creare un diversivo che lo facesse apparire meno responsabile della disastrosa situazione economica del Paese agli occhi della propria opinione pubblica, ma anche per rafforzare il suo carisma e mettere alla prova la fedeltà dei suoi fratelli criminali (loro sì portatori di un’autentica tradizione: vory v zakone, ladri nella legge, era la denominazione adottata dalle corporazioni di banditi nella Russia prerivoluzionaria).

Se anche noi cadiamo nella sua trappola propagandistica, se gli attribuiamo la capacità di farsi nuovo portavoce di un progetto plurisecolare di dominio continentale, rischiamo soltanto di favorirlo nella ricostruzione di un consenso di massa di cui oggi non gode. E di trasformarci negli ennesimi portavoce di una profezia che si auto-adempie.

Invitare tutti a non chiamare Putin il nuovo zar non è un vano esercizio intellettuale. Le guerre si combattono e si vincono sulla base delle motivazioni di chi mette a rischio la propria vita sui campi di battaglia – Vietnam e Afghanistan sono lì a ricordarcelo. Bisogna, da un lato, mettere chi si difende (e che, non a caso, definisce Putin un criminale e non certo uno zar) nelle condizioni di continuare a farlo; e, al tempo stesso, convincere gli aggressori che la loro causa non ha alcunché di nobile e non ha futuro (il fatto che Putin stia ricorrendo al reclutamento di mercenari stranieri è la prova che lui stesso non crede di poter spacciare ai propri coscritti le verità che vende invece con facilità ai media occidentali).

Europa e Stati Uniti dovrebbero far leva sulle debolezze del potere di Putin, piuttosto che accreditarne le millanterie zariste. Le sanzioni economiche e, soprattutto, finanziarie vanno nella giusta direzione. Ma se le democrazie volessero, per una volta, risultare credibili nel rivendicare la propria superiorità morale nei confronti delle autocrazie avrebbero in mano un “congegno da fine del mondo” il cui impiego, oltretutto, non provocherebbe ulteriori spargimenti di sangue. Basterebbe loro far luce sull’economia ombra che consente a Putin e agli altri oligarchi, oltre che a mafiosi e terroristi (e normali evasori fiscali) di occultare i propri profitti illeciti.

L’adozione di misure quali il congelamento dei beni dei multimiliardari russi ha rivelato che, in realtà, i governi hanno già gli strumenti per farlo. Se soltanto accettassero di sacrificare la parte di utili che incassano da queste transazioni, allora, nulla potrebbe impedire loro di risolvere il problema alla radice: qualificando i paradisi fiscali, anche quelli interni all’Unione Europea, per quello che realmente sono, ovvero Stati canaglia, e facendosi portavoci di una battaglia globale per l’eliminazione del segreto bancario.

In attesa di una soluzione così radicale, si potrebbe intanto abrogare quei programmi Golden Visas che hanno permesso agli oligarchi russi e a criminali di mezzo mondo di acquisire quella cittadinanza europea che continuiamo a negare, invece, ai migranti nullatenenti (una discussione in tal senso, se non altro, sembra sia stata avviata all’interno dell’Unione Europea).

Credit foto: Human Cordon for Peace in Ukraine, Lisbona, Portugal, 26 febbraio 2022. EPA/RODRIGO ANTUNES



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