Qualcosa poteva andar storto, e l’ha fatto

Il nazionalismo religioso sembra costituire la stella polare che Meloni intende seguire. Il suo discorso alla Camera è stato ricco di riferimenti cattolici.

Raffaele Carcano

La destra ha vinto le elezioni e sta brindando al suo governo. L’opposizione le ha perse per proprio demerito ed è costretta a ripartire dalle basi. Ed è molto meglio se comincerà da quelle più semplici, come per esempio la legge di Murphy: se qualcosa può andare storto, lo farà. Sarebbe opportuno non crearne mai i presupposti.

Abbiamo un governo di destra ed è impossibile definirlo diversamente – neppure di destra-centro, come qualcuno prova disperatamente a fare. Le elezioni le ha vinte un partito postfascista, che ha come alleati un altro partito di estrema destra e un terzo partito, Forza Italia, che ha perso per strada tutti i pezzi che potevano ancora vagamente caratterizzarlo come centrista. Non per niente sono proprio queste le classificazioni (correttamente) usate dalla stampa internazionale, peraltro suffragate anche dalle alleanze internazionali con partiti come Vox o politici come Marine Le Pen. Per quanto imbarazzante per il paese, non si vede per quale motivo si dovrebbe edulcorare la realtà.

A ben vedere, di moderato non c’era ormai granché nemmeno nel governo che scaturì dalla precedente tornata elettorale vinta dalla destra: il Berlusconi IV nacque infatti senza l’Unione di Centro. La differenza sostanziale rispetto ad allora è rappresentata dallo spostamento del baricentro della coalizione dalla destra all’estrema destra. Non lo si sente dire molto: forse perché significa ammettere che, anche ai nostri occhi, Berlusconi sembra meno estremista di Giorgia Meloni. Al peggio, si sa, non c’è mai fine.

La stessa ascesa di una donna a Palazzo Chigi non dovrebbe essere motivo di soddisfazione: ci è finita in quanto alfiere di un programma di estrema destra, non perché donna. A sinistra non è mai stata celebrata Margaret Thatcher, né lo sarebbe stata Marine Le Pen se avesse vinto le presidenziali francesi. Giorgia Meloni non attuerà alcun programma femminista, quindi l’opposizione è caldamente invitata a valutare i fatti, non i simboli.

Anche perché, a fare il contrario, sono decisamente più bravi a destra. La parola ‘demagogia’ risale all’antica Grecia – e lo studio dei bias ci conferma che il populismo funziona tuttora perfettamente, così come funzionano i richiami alla tradizione. Il programma della neo-premier non è certo un’esclusiva made in Italy: la stella del nazionalismo religioso risplende infatti ovunque, nel mondo, siano esse autocrazie (Russia, Turchia) o democrazie a rischio (Polonia, Ungheria o India). Il ritorno di Trump e Netanyahu non è improbabile, né lo è la conferma di Bolsonaro.

Proprio la Polonia sembra costituire la stella polare che Meloni intende seguire. La premier ha manifestato tutta la sua gioia per essere entrata in carica il giorno in cui la chiesa commemora lo «statista» (sic) Karol Wojtyla. Il suo discorso alla Camera è stato ricco di riferimenti cattolici. A sua volta papa Bergoglio (che già aveva telefonato per congratularsi a Lorenzo Fontana, l’integralista eletto a Montecitorio) non ha mancato di far sapere che lui «prega per la pace e l’unità dell’Italia». Storicamente, la chiesa è sempre stata a favore di chi ha fatto i suoi interessi. Se negli ultimi tre secoli le sono stati erosi, non è certo stato per merito della destra sovranista.

I meriti (o, per essere più precisi, le abilità) della destra sono altri. Ha correttamente identificato i problemi che stanno più a cuore alla maggioranza degli elettori, e non ha nemmeno cercato di convincere chi non la pensava allo stesso modo: si è limitata a mobilizzare al massimo i propri potenziali sostenitori – come peraltro fa ogni destra al mondo, bravissime nell’andare al sodo. Peccato che difficilmente li risolverà mai, quei problemi, perché per continuare a vincere deve mantenerli artificialmente in vita. La sensazione di insicurezza esistenziale è in continua crescita, anche a dispetto dei dati reali, ma sembra proprio che la terapia più efficace per blandirla sia il limitarsi a scaricare la responsabilità su altri: talvolta facilmente identificabili per la lingua o il colore della pelle, talvolta ricondotti a imprecisati “poteri forti”.

Non andrà diversamente con il governo Meloni, identico persino nella struttura al primo esecutivo di centrodestra, entrato in carica nel 1994: il leader del partito più votato nel ruolo di presidente del consiglio, e un esponente ciascuno degli altri due partiti a fargli da vice. I tre partiti sono ancora quelli, le persone no (e meno male, dopo 28 anni). Metà dei ministri era però già presente nell’ultimo governo Berlusconi – e si parla comunque di 14 anni fa. È quindi molto difficile che le politiche che porteranno avanti saranno diverse dalle esperienze precedenti. Come sempre lavoreranno molto di retorica, promuovendo la nostalgia per un passato mitico che non è mai esistito. Combatteranno l’immigrazione in nome del natalismo cattolico, e l’ecologia sarà soltanto materia di battute contro i “gretini”, estese magari agli scienziati. È facile prevedere che sarà soprattutto la laicità a soffrire, dai diritti gay a quelli riproduttivi, ma in particolare a livello simbolico: ci attende un diluvio di crocifissi, presepi, inni sacri e memorie liturgiche.

Litigheranno anche sui dettagli, molto probabilmente, però intanto hanno vinto uniti: hanno capito che perdono, se si presentano divisi come nel 1996. Dall’altra parte, invece, preferiscono litigare prima delle elezioni, per poi passare il tempo libero così ingloriosamente guadagnato a domandarsi come mai hanno perso: ognun per sé e Meloni per tutti. Il Pd ha ripetuto lo stesso errore del sostegno a Monti, dimenticando che facendo i responsabili non solo si rischia di essere scambiati per Scilipoti, ma raramente si è premiati nelle urne. Forse confidava nell’appoggio da parte di Draghi, che però non è sceso in campo e non ha dato indicazioni di voto. A conti fatti, anche l’entusiasmo per il premier uscente si è rivelato gonfiato, visto che le elezioni le ha vinte chi non faceva parte del governo e le ha pareggiate chi l’ha fatto cadere (riuscendo nello stesso tempo a far dimenticare diversi discutibili provvedimenti del primo governo Conte).

Le premesse per una catastrofe c’erano dunque tutte. Se si confrontano i voti raccolti dalla coalizione di destra, infatti, tra il 2018 e il 2022 i consensi non sono cambiati granché: poco oltre i 12 milioni. È stata la somma “di tutto il resto” a calare di cinque milioni. Per dare un termine di paragone, nel 1994 la tanto vilipesa “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto prese 13,3 milioni di voti. Tanti elettori non hanno probabilmente compreso come sia possibile allearsi quasi con tutti nel corso di una legislatura per poi presentarsi separati alle successive consultazioni.

E tuttavia, lo scorso 25 settembre la somma di “tutto il resto” (che comprende ovviamente anche partiti che non andrebbero considerati, come Italexit) è arrivata a 15,8 milioni di consensi. C’è quindi ampio materiale con cui ricostruire, tra il recupero degli astensionisti e scelte più realiste. Una per tutte: un partito né carne né pesce come il Pd non ha più senso, se mai ne ha avuto uno. Quando nacque, nel 2007, Romano Prodi affermò che sarebbe stato «un esempio riformista per tutta l’Europa. Sono convinto, e ne ho già avuto testimonianza, che saremo noi ad anticipare l’Europa e non viceversa». Non è il caso di sogghignare troppo su un partito che prende ormai meno voti di quanti ne raccoglievano (da soli) i Ds. Resta il fatto che la fusione a freddo tra ex-Pci ed ex-Dc si è conclusa con un’opa vincente dei cattolici all’interno, con una sconfitta epocale all’esterno e con lo spettro della sinistra che non si aggira più da nessuna parte. E adesso siamo costretti ad aggrapparci alla salute di Sergio Mattarella, sperando che regga cinque anni.

Piuttosto che tirare a campare confidando esclusivamente nel voto utile contro la destra, sarebbe più onesto tornare alle origini, con i cattolici sociali in un proprio partito, i liberal insieme a Calenda e Renzi (rendendoli così meno liberali, e forse un po’ più libertari) e la sinistra in proprio. Ancor meglio se non sarà una sinistra timidamente laica, ma una sinistra all’avanguardia dei diritti civili, che non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di partecipare a un raduno integralista come il meeting di Rimini. La laicità rappresenta inevitabilmente uno dei più importanti valori distintivi rispetto alla destra religiosa: perché rinunciarci?

Con questo meccanismo di voto (tafazzianamente creato dal centrosinistra) per ottenere la maggioranza assoluta è d’obbligo differenziarsi politicamente, ma coalizzarsi alle elezioni: per litigare c’è sempre tempo, dopo. In ogni caso, non bisogna dimenticarsi di un fondamentale corollario della legge di Murphy: «Lasciate a se stesse, le cose tendono ad andare di male in peggio». E chissà quale sfacelo potremmo trovare, tra un ventennio.

(credit foto Ansa R. Antimani)



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