Quale riforma per la giustizia e la magistratura?

L’antidoto ai fenomeni degenerativi in atto non sta tanto in operazioni di ingegneria istituzionale (che spesso, come è accaduto in passato, aggravano ulteriormente la situazione) ma nel recupero del senso profondo della giurisdizione e dell’indipendenza (esterna e interna) di pubblici ministeri e giudici.

Livio Pepino

1. Non senza fibrillazioni (e con verosimili, seppur negati, prossimi distinguo in sede parlamentare o referendaria) il Consiglio dei ministri ha approvato la bozza degli emendamenti da apportare alla legge delega per la riforma della giustizia penale e del relativo processo. Restano da varare gli interventi sul processo civile e quelli sull’ordinamento giudiziario, ma il quadro comincia a delinearsi (anche tenendo conto degli elaborati prodotti dalle commissioni istituite dalla ministra Cartabia).

Naturalmente tutti cantano vittoria e promettono processi penali più giusti e, soprattutto, più brevi (con una riduzione di tempi del 25% assicura il presidente del Consiglio: sic!) pur sapendo che non sarà così, in particolare per quanto riguarda il secondo obiettivo. Per abbreviare davvero i processi penali – come tutti sanno – ci sono solo tre strade, percorribili in modo alternativo o concorrente: diminuire i carichi degli uffici giudiziari con una drastica depenalizzazione (a cominciare dai settori degli stupefacenti e della immigrazione, nei quali, tra l’altro, la bulimia repressiva si è rivelata inefficace oltre che ingiusta) e/o – absit iniuria verbis – con periodiche amnistie mirate; aumentare il numero di pubblici ministeri e giudici; ridurre al minimo le impugnazione (soluzione, quest’ultima, che personalmente non auspico ma dagli evidenti effetti in termini di efficienza, seppur a scapito della giustizia sostanziale, e non è certo poco…). Si tratta, peraltro, di strade che richiedono risorse economiche consistenti e un ampio consenso o una significativa egemonia culturale e che sono oggi impraticabili per la decisiva ragione che tali condizioni mancano da decenni. E, allora, si mascherano come risolutivi, perché l’Europa lo chiede e – come si ripete ossessivamente – per non perdere il treno del PNRR, aggiustamenti (pur talora importanti e utili) o interventi di piccolo cabotaggio.

Esattamente come avviene in molti altri settori toccati dal Piano di ripresa e resilienza in cui si proclama che tutto deve cambiare con la riserva mentale che tutto resterà come prima (e, talora, peggio di prima). Così il solo intervento rilevante in termini di principio è quello sulla prescrizione – non a caso l’unico di cui si discute – che riguarda non tanto la celerità dei processi quanto, piuttosto, la concezione e il senso della giustizia e che è, a ben guardare, un non intervento ché l’affiancamento di una prescrizione processuale a quella sostanziale, comunque lo si valuti (ed è, per me, preferibile all’ottusa rigidità della soluzione Bonafede), appare un espediente gesuitico per conciliare l’inconciliabile più che una rimodulazione razionale di un istituto tanto delicato quanto necessario.

A questo punto il rischio è che tutte le smanie di cambiamento – ché qualcosa bisogna pur cambiare! – si proiettino, oltre che su alcune (opportune) modalità alternative di soluzione delle controversie civili, sull’ordinamento giudiziario o, per meglio dire, sullo statuto dei giudici e dei pubblici ministeri e sul loro organo di governo, il famigerato Consiglio superiore della magistratura. In realtà, dopo un anno in cui editorialisti e politici di ogni colore hanno tuonato in modo acritico contro le “correnti” della magistratura e prospettato interventi moralizzatori tutti centrati sulla composizione del Csm e sul suo sistema elettorale (con aperture finanche al sorteggio), l’apposita commissione istituita dalla ministra guardasigilli ha ridimensionato alcuni furori e si è mossa con maggior razionalità. In particolare, la Commissione ha escluso il prospettato ricorso a forme di sorteggio per la designazione dei componenti del Csm e la previsione di punteggi rigidi tesi a imbrigliarne la discrezionalità; ha (opportunamente) abbandonato, per il reclutamento di pubblici ministeri e giudici, il modello di concorso di secondo grado improvvidamente introdotto dalla riforma della strana coppia Castelli-Mastella; ha prospettato il contenimento del numero dei magistrati fuori ruolo, seppur timidamente e con clausole idonee a vanificarlo; ha introdotto alcuni (razionali) limiti all’accesso di magistrati alla amministrazioni locali e al loro rientro in ruolo dopo un mandato parlamentare (o la partecipazione alla relativa competizione elettorale). Indicazioni di importanza e segno diversi, spesso razionalizzatrici ma non certo epocali. Non è un male. Ma, anche qui, ci sono alcune significative omissioni e, poi, i giochi non sono affatto chiusi e quel che accadrà in Consiglio dei ministri e nel successivo iter parlamentare è tuttora incerto. Per questo non è inutile soffermarsi sul punto, partendo dalla domanda sul perché cambiare per approdare poi, coerentemente, all’indicazione del cosa cambiare.

2. La goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha dato una spinta decisiva alla richiesta di cambiamento è stata il cosiddetto “caso Palamara-Ferri”, spia del vuoto di ideali di un ceto associativo impegnato a tempo pieno nel distribuire favori e promozioni con una volgarità disinteressata finanche alle forme, che ha posto prepotentemente in primo piano la questione morale in magistratura.

Non è questo il primo passaggio delicato della storia dell’autogoverno giudiziario per fatti connessi con la questione morale da quando, nel 1981, la polizia giudiziaria varcò i cancelli di palazzo dei Marescialli per perquisire lo studio del vicepresidente Zilletti (poi costretto a dimettersi perché lambito dalle indagini relative al banchiere Roberto Calvi) e sino a che, nel 2011, il consigliere laico (allora) di fede leghista Matteo Brigandì venne sorpreso con le mani nel sacco in un’operazione di delegittimazione del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini attraverso documenti consiliari secretati indebitamente sottratti. E non è la prima volta in cui emergono collegamenti di personaggi autorevoli dell’associazionismo giudiziario o della magistratura tout court con lobby o ambienti affaristici e finanche criminali. Basti ricordare, tra i casi più eclatanti, quello di Carmelo Spagnuolo, potente procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma e poi presidente di sezione della Corte di cassazione, radiato dalla magistratura nel 1979 per l’affidavit rilasciato il 21 novembre 1976 a garanzia della correttezza del confratello piduista Michele Sindona, o quello di Domenico Pone, segretario di Magistratura indipendente e già componente del Csm, anch’egli radiato dalla magistratura (con sentenza 9 febbraio 1983 della Sezione disciplinare) per la sua appartenenza alla P2 e i suoi rapporti con Licio Gelli diretti al finanziamento della stampa del suo gruppo associativo. E, per altro verso, l’esistenza di lottizzazioni e malcostume nelle nomine a incarichi direttivi è vecchia come il Consiglio: personalmente ho cominciato a sentirne parlare quando sono entrato in magistratura, nel lontano 1970, e la relativa denuncia è stata, proprio in quegli anni, una delle bandiere del neonato gruppo di Magistratura democratica. Ma certo ci sono questa volta, insieme, il numero e l’eterogeneità dei magistrati coinvolti (parte consistente delle componenti consiliari delle correnti di Unità per la Costituzione e di Magistratura indipendente all’epoca dei fatti); l’emergere di un sistema lobbistico a cui partecipavano senza remore magistrati autorevoli – per storia o per ruolo – e settori della politica; il condizionamento delle procedure per la nomina dei dirigenti di uffici giudiziari nevralgici e insieme – fatto ancor più grave – la pretesa di scegliere i magistrati preposti ai proprî processi; una spregiudicatezza di progetti e di obiettivi lontana le mille miglia dal costume e dall’habitus della giurisdizione; un linguaggio da Suburra. E c’è un elemento ulteriore. Alla descritta crescita di pratiche clientelari e di contatti impropri con centri di potere di varia natura si è affiancata la sostituzione della cultura delle regole – unica fonte di legittimazione del sistema giustizia – con quella del risultato (che è anche il punto dolente, seppur diversamente coniugato, del successivo “caso Amara” e della circolazione di verbali segretati che lo ha accompagnato). Né vale dire che pratiche analoghe sono tristemente praticate anche nelle nomine dei prefetti o dei questori, dei presidenti delle aziende sanitarie o dei direttori dei telegiornali, dei rettori delle Università o dei vertici di polizia e carabinieri. È vero, come la cronaca quotidiana dimostra. Ma non è buona cosa usare come giustificazione del proprio operato le malefatte altrui e, soprattutto, il malcostume è doppiamente grave quando riguarda organi o istituzioni (come la magistratura) preposti al controllo sull’altrui correttezza

Ma – è questo il profilo principale, che sfugge per lo più, per distrazione o per interesse, ai commentatori – il problema non sta (solo) nell’organo di governo autonomo ma riguarda (cosa assai più rilevante) il corpo della magistratura in quanto tale. Il ruolo di Cosimo Ferri (già potente dominus della corrente conservatrice Magistratura indipendente e, poi, parlamentare nelle file del Pd prima e di Italia viva poi, sorpreso “con le mani nel sacco” a fianco di Palamara) sul delicato crinale tra magistratura e politica (bipartisan…) è noto da lustri e Magistratura indipendente, che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi (finanche nelle recenti elezioni suppletive per il Csm). E l’adesione a Unità per la costituzione (il gruppo di riferimento di Palamara) è stata tradizionalmente una sorta di polizza assicurativa per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo.

Ciò evidenzia un dato fondamentale ai fini dell’individuazione degli interventi normativi e amministrativi necessari, e cioè che il Consiglio superiore – questo come quelli che lo hanno preceduto – non è un corpo a sé ma la realizzazione di ciò che vuole una parte consistente della magistratura (anche se, ovviamente, non tutta) e – aggiungo – della politica. A ciò le correnti della magistratura (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui. Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già più di un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera e che il divieto, pur ribadito durante il fascismo da una circolare del guardasigilli Rocco del febbraio del 1930, era sistematicamente violato, al punto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, si sentì in dovere di richiamarlo con il telegramma-circolare n. 2473 del 7 maggio 1940 in cui si sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla “meritata promozione”. Se poi posso citare l’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati. Allo stesso modo la disinvoltura e (a volte) la spregiudicatezza nei rapporti di alcuni magistrati con il sottobosco politico e affaristico non sono – come si è detto – una novità, ancorché sottovalutata dalla corporazione (e nei rapporti dei capi degli uffici). È dunque alla situazione della magistratura che occorre fare riferimento se si vuole davvero incidere sulla sua escrescenza nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni. Concentrando l’attenzione e le critiche esclusivamente sul Csm, infatti, non si coglie che il cuore del problema sta, prima che nell’organo di governo autonomo, nel corpo stesso della magistratura. E questo vizio di analisi si riverbera, inevitabilmente, sulle soluzioni proposte.

3. Se si concentra l’attenzione sul corpo dei magistrati, emerge un dato importante, pur rimosso dai più (e, in particolare dai protagonisti negativi di questa stagione, a cominciare da Palamara): la magistratura non è un monolite ma una realtà articolata e complessa nella quale è in corso, da sempre, un conflitto dagli esiti alterni. C’è una magistratura burocratica e corporativa, abituata a pratiche clientelari, inserita in sistemi di potere anche esterni al corpo, poco attenta alle regole e alle garanzie; e c’è una magistratura diversa, fedele al disegno costituzionale, attenta alle idee più che ai rapporti di potere e sensibile al “punto di vista esterno” (quello, cioè, dei cittadini e dei destinatari della giustizia). Agire per un cambiamento reale significa evitare il polverone in cui si stanno esibendo il redivivo Palamara e i suoi interessati portavoce e riconoscere il conflitto in atto, sostenendo la parte della magistratura rigorosa e non compromessa.

Come fare?

C’è una sola strada: un salto di qualità nella ridefinizione dell’assetto, della cultura e delle prassi della magistratura, la cui involuzione burocratica e funzionariale degli ultimi anni (effetto anche dell’arroccamento corporativo conseguente alla lunga stagione del berlusconismo) ha favorito l’estendersi di malcostume e clientelismo, che – come noto – trovano terreno fertile nel corporativismo, nel pensiero unico e nel consociativismo.

L’antidoto ai fenomeni degenerativi in atto non sta tanto in operazioni di ingegneria istituzionale (che spesso, come è accaduto in passato, aggravano ulteriormente la situazione) ma nel recupero del senso profondo della giurisdizione, della parità delle funzioni giudiziarie e dell’indipendenza (esterna e interna) di pubblici ministeri e giudici. Un recupero non facile ché il modello di magistratura ad esso sotteso è stato sconfitto all’inizio del millennio, prima sul piano culturale e poi con le già ricordate riforme ordinamentali dei ministri Castelli e Mastella (leggi 25 luglio 2005, n. 150 e 30 luglio 2007, n. 111). Si fondava – quel modello ‒ su suggestioni e istituti volti a disegnare una magistratura diversa, organizzata su basi egualitarie e democratiche e aperta a forme impegnative di partecipazione popolare, estranea ai circuiti del potere e capace di inverare il modello costituzionale (che vuole, appunto, i giudici soggetti soltanto alla legge e diversificati tra loro non per gerarchie ma esclusivamente per funzioni). Da lì occorre ripartire. Con due stelle polari che devono trovar posto negli interventi legislativi sull’assetto della magistratura.

Primo. I fenomeni di malcostume, di clientelismo, di lottizzazione e quant’altro si concentrano – come mostra la cronaca – nelle nomine. È un caso o ciò ha a che fare con il ruolo che i dirigenti degli uffici rivestono nel sistema istituzionale? E, se è vera la seconda alternativa, non sarebbe opportuno intervenire su quel ruolo? I dirigenti degli uffici giudiziari (della Procure in particolare, ma non solo) sono tuttora, per i compiti loro attribuiti e in una tradizione che affonda addirittura in epoca liberale e nel fascismo, dei centri di potere di primo piano (al punto che, nel manuale Cencelli della politica, il procuratore della Repubblica di Roma vale quanto due o tre ministri…). Ciò ne drammatizza la nomina e stimola appetiti e pressioni di diversa natura. E, prima ancora, stravolge il senso dell’attività giudiziaria, coinvolgendola in giochi di potere che dovrebbero esserle estranei. Occorre, dunque, cambiare strada e prevedere la dirigenza degli uffici giudiziari come incarico temporaneo affidato a un primus inter pares, preposto essenzialmente a garantire l’indipendenza e la correttezza dell’attività dei colleghi (spostando nel contempo le responsabilità dell’organizzazione a personale amministrativo dotato di specifica competenza).

Secondo. Ciò che maggiormente nuoce alla giurisdizione sono i collegamenti impropri tra magistrati e politica, collegamenti che, invece, sono sempre più stretti anche in termini palesi e istituzionali e riguardano non già la “politica delle idee” ma la “politica del potere” (dalla quale ultima – sono parole di Marco Ramat del 1964 – la magistratura deve estraniarsi). Qui non c’entrano – o c’entrano in misura ridotta – le correnti: c’entra l’occupazione degli uffici del Ministero della giustizia (e non solo) da parte di singoli magistrati chiamati ad personam da ministri e sottosegretari e c’entrano gli incarichi di diretta estrazione politica. È – questo – un sistema privo, salvo casi eccezionali, di valide giustificazioni (non essendo dato vedere, se non in una prospettiva di protezione o di potere corporativo, perché il capo di gabinetto del ministro o il direttore dell’Amministrazione penitenziaria, per non dire dei responsabili di altri uffici minori, debbano essere giudici o pubblici ministeri…) che è fonte di un continuum tra politica e magistratura e di una cultura che non vede in esso controindicazioni o inopportunità.

C’è molto da cambiare nell’assetto della magistratura. Ma occorre farlo nella direzione giusta. E non è detto che sia quella all’orizzonte, pur con i temperamenti suggeriti dalla Commissione Luciani.

 

(credit foto ANSA/MOURAD BALTI TOUATI)



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