Il futuro per Gaza: un’analisi dei possibili scenari alla luce del diritto internazionale

Ogni progetto per il futuro di Gaza dovrà fondarsi sui principi del diritto internazionale. L’ipotesi più credibile è quella di una Autorità provvisoria sotto l’egida dell’ONU, rappresentativa delle realtà locali e che coinvolga una rinnovata Autorità Palestinese. Sullo sfondo rimane il percorso della formula “Due popoli, due Stati”, non dimenticando le voci più responsabili della società civile sia israeliana che palestinese che rivendicano un equilibrio nei rapporti sociali ed economici tra i due popoli.

Maurizio Delli Santi

Per affrontare un’ipotesi seria per il futuro di Gaza occorre affidarsi ad un progetto che preveda un percorso per tappe successive. Per essere credibile e trovare le necessarie convergenze dovrà fondarsi su  tre strumenti essenziali: il diritto internazionale, incentrato sulla Carta delle Nazioni Unite, il diritto internazionale umanitario, ovvero le “leggi di guerra” poi evolute nelle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra che tutelano la popolazione civile e disciplinano i regimi di occupazione, e il diritto internazionale penale, oggi delineato dal più avanzato sistema di codificazione dei crimini di guerra e contro l’umanità che si rinviene nello Statuto della Corte penale.

Un passo necessario: un’ Autorità provvisoria su Gaza

Posto che un regime di occupazione per il diritto internazionale non può che essere temporaneo e non può preludere a qualsiasi forma di “annessione” del territorio palestinese, né tanto meno ad una deportazione di massa, Israele dovrebbe  dunque impegnarsi a restituire la Striscia alla sua popolazione.  Il progetto che al momento appare più ravvicinato e realistico è un percorso in più tappe, la prima delle quali dovrebbe essere una Amministrazione civile da cui sia allontanata l’attuale dirigenza di Hamas. Si tratterebbe di un organismo simile al  governo provvisorio istituito in Iraq, composto da rappresentanti delle forze locali come amministratori delle municipalità, sindacati, associazioni professionali, tribù, clan e organizzazioni non governative – molto presenti e apprezzate dalla bisognosa popolazione di Gaza –  cui dovranno unirsi figure autorevoli di Fatah, il movimento su cui si regge l’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania. È ben noto che l’aspetto critico di tale prospettiva è proprio il riavvicinamento dell’ Anp della West Bank a Gaza, ancorché sia fortemente auspicato dall’Occidente e probabilmente anche da diversi Stati del mondo arabo moderato. Perché questa ipotesi possa delinearsi occorrerà creare le condizioni per consolidare una nuova e autorevole leadership dell’Anp, affinché si superino le accuse di corruzione e arrendevolezza rivolte all’attuale governo dell’ultraottantenne Abu Mazen, ritenuto «collaboratore dell’occupazione» per  non aver reagito come dovuto al moltiplicarsi degli insediamenti dei coloni israeliani nei territori dei palestinesi.

È evidente tuttavia che il presupposto per garantire un futuro per  Gaza  sarà proprio riconoscere un’Autorità palestinese, anche se  questa non potrà essere l’attuale dirigenza di  Hamas che ha rivelato la sua natura terroristica e agito con nettezza nel perseguire l’annientamento di Israele. La comunità internazionale  non può dunque che proporre per la costituenda Autorità provvisoria di Gaza un rapporto stretto con l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah, salvaguardato da  un ruolo di “garanti” – con presenze diplomatiche e amministrative, ma probabilmente anche con forze multinazionali di sicurezza – svolto dalla Lega Araba e dai principali Stati Arabi come Egitto, Giordania e anche da Stati del Golfo come Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, oltre che da USA e UE, il tutto sotto l’egida dell’ONU che dovrà approvare una Risoluzione in tal senso.

Dalla “guerra esistenziale” alla formula “Due popoli, due Stati

Nel tempo si potrà affrontare la controversa questione dell’espansione dei coloni ebrei in Cisgiordania su cui Israele dovrà accettare un ridimensionamento e/o altre formule di integrazione che non compromettano l’autonomia palestinese, per poi ripartire dagli accordi di Oslo del 1993 e riconsiderare la formula “Due popoli, due Stati”, su cui sembra ancora convergere la comunità internazionale. In altri termini, l’idea è quella di muoversi sulle basi delle Risoluzioni Onu 242 e 338, secondo un piano che già nel 2020 aveva trovato convergenti gli Usa del Presidente Trump e un diverso Netanyahu, in cui si configurerebbe un unico  Stato palestinese su circa il 70% della Cisgiordania, un’ampliata Striscia di Gaza e con capitale un’area di Gerusalemme. Sullo sfondo occorrerà valutare in ogni caso il processo di rinnovamento della leadership israeliana, troppo compromessa dall’attuale deriva ultranazionalista che sta invece spingendo per una occupazione prolungata su Gaza, e, alla pari di Hamas che non vuole Israele, di fatto non vuole una Palestina autonoma: è emblematico che siano proprio le correnti estremiste e radicalizzate delle due parti a non accettare il riconoscimento dell’altro. Se il conflitto fosse destinato ad inasprirsi il rischio è che le rispettive popolazioni si polarizzino proprio su questa prospettiva di una reciproca “guerra esistenziale” senza fine.

In questa visione rigeneratrice occorre tuttavia  avere la consapevolezza di molti altri aspetti critici che sono stati ben delineati da un’ampia letteratura sulla attuale situazione dei rapporti fra palestinesi ed israeliani. Le relazioni tra le due società sono storicamente asimmetriche perché se da un lato Israele ha visto un largo sviluppo economico e sociale, dall’altro i territori palestinesi sono contrassegnati da una economia sostanzialmente sostenuta dagli aiuti internazionali e da larghe fasce della popolazione condannate allo stato di profughi. Questa situazione, insieme all’estensione degli insediamenti dei coloni ebrei in particolare in Cisgiordania, ha portato a rilanciare verso Israele l’accusa di neo-colonialismo,  di espropriazione economica e di apartheid. Significative sul punto sono le riflessioni di Thomas Vescovi (L’échec de la solution à deux États in  Le Monde Diplomatique, novembre 2023): «Mentre i palestinesi dipendono dall’economia israeliana, i territori occupati costituiscono un terreno di sperimentazione per il complesso militare-industriale israeliano e una manna finanziaria non trascurabile per il capitalismo fondiario, che specula a proprio piacimento sulle risorse sottratte alla popolazioni locali». Da qui un dibattito che prima dei fatti del 7 ottobre aveva portato a parlare di soluzioni alternative con vari progetti di  Stato comune, Stato confederale e Stato bi-nazionale, tutti accomunati dalla convinzione che la soluzione dei due Stati non avrebbe risolto il problema di un contratto sociale per la tutela dei diritti di tutti, necessario per la pace. Dal 2012, ad esempio,  A land for All, «Una terra per tutti» una organizzazione compostada ebrei israeliani e arabi israeliani, propone una confederazione Stati che garantisca la democrazia, la libertà di movimento e di insediamento sul modello dell’Unione europea, in cui le controversie verrebbero risolte attraverso un’assemblea congiunta israelo-palestinese o un tribunale congiunto per i diritti umani. L’organizzazione One Democratic State Compaign, costituita nella città di Haifa nel 2018 da attivisti, intellettuali e accademici ebrei palestinesi e israeliani, ha invece elaborato un piano articolato in dieci punti per il progetto di uno “Stato democratico comune” tra le due società. Fondamentali sono i  primi due  punti: il primo prevede «Un’unica democrazia costituzionale»,  tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano che apparterrà a tutti i suoi cittadini, compresi i profughi palestinesi; il secondo richiama il «Diritto al ritorno, alla reintegrazione e al reinserimento nella società», di tutti i rifugiati palestinesi e dei loro discendenti, sia che vivano in esilio all’estero sia che attualmente vivano nella Palestina storica, compresi quelli con cittadinanza israeliana.

Questi progetti ovviamente si sono arenati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e non avrebbe senso riproporli nella crisi in atto. Per quanto evidentemente circoscritti ad una comunità intellettuale, risultano tuttavia indicativi di uno spaccato rappresentativo di una società civile responsabile, che ha saputo guardare alle prospettive  delle relazioni tra ebrei e palestinesi al di là delle opposte radicalizzazioni che hanno portato alle tragiche vicende di questi giorni. Si tratta dunque di un patrimonio di idee che andrà riconsiderato probabilmente quando saranno consolidate in maniera più concreta le condizioni della pace.

L’iniziativa Italia-Francia-Germania: «tre no e tre sì »

Tornando a ragionare sul presente, va perciò valutata con attenzione l’ipotesi di un’Autorità provvisoria per Gaza, che  è considerata la più realistica anche dal giornale israeliano Haaretz, di ispirazione progressista.  Di un ruolo di una rinnovata «Autorità palestinese» si parla  anche in una proposta ufficiale presentata da una riedita intesa Italia-Francia-Germania. L’iniziativa è stata presentata dal capo della diplomazia europea Josep Borrell al Consiglio affari esteri con un documento in cui si parla di   «tre no e tre sì». I «no» riguardano:  1) non potrà essere imposto lo spostamento definitivo in altri paesi della popolazione palestinese da Gaza; 2) non vi può essere una riduzione del territorio di Gaza, per cui Israele non potrà rioccuparla in forma stabile, né si potrà accettare un ritorno di Hamas; 3) Gaza non va slegata dal resto del territorio palestinese: la soluzione per Gaza va vista nel quadro di una “soluzione globale”. I tre «sì» riguardano: 1) «una Autorità Palestinese», che deve essere ripristinata  a Gaza, e Borrell ha precisato che se c’è già un’Autorità Palestinese «non occorre inventarne una nuova», ma va rafforzata con appropriate decisioni del Consiglio di Sicurezza; 2) il «forte appoggio» politico e finanziario che questa Autorità dovrà avere con il coinvolgimento degli Stati arabi; 3) un maggiore impegno dell’UE nella regione per la costruzione dello «Stato palestinese». Il documento, su cui dovrà pronunciarsi il Consiglio europeo, tratteggia anche l’importanza di delegittimare la falsa narrazione di Hamas come “difensore della causa palestinese” e l’obiettivo di individuare strumenti efficaci a livello internazionale per privare Hamas di tutti i finanziamenti che vengono distratti in armamenti invece di essere destinati al sostegno della popolazione.

Oltre all’iniziativa europea, la stessa prospettiva nella sostanza è stata espressa anche dal Presidente Biden  in un editoriale per il Washington Post: Gaza non potrà essere più una «piattaforma per il terrorismo», ma al tempo stesso «non ci deve essere alcun spostamento forzato dei palestinesi da Gaza», così come non si potrà realizzare «nessuna rioccupazione, nessun assedio o blocco e nessuna riduzione del territorio». Sul futuro assetto  Biden ha precisato che Gaza e Cisgiordania dovranno essere riunite «sotto un’Autorità Palestinese rinnovata», mentre occorrerà lavorare per la «soluzione a due Stati».

Per evitare l’allargamento del conflitto

Buona parte della comunità internazionale è dunque convinta che un prolungamento dell’occupazione di Gaza, con l’aggravarsi delle distruzioni e delle stragi di civili, espone all’allargamento del conflitto, oltre ad essere in contrasto con i principi di necessità e proporzionalità cui deve uniformarsi il progetto di Israele di destabilizzare Hamas. Lo scenario peraltro non converrebbe allo stesso Stato ebraico: il rischio è di protrarre uno stato di guerra e di terrorismo permanente cui il governo di Tel Aviv dovrebbe far fronte con una mobilitazione prolungata dei riservisti tratti dalla società civile, il che significherebbe il blocco dello sviluppo economico e sociale del paese.

Il quadro generale della crisi richiede anche di non trascurare le insidie che sul cammino degli accordi Abramo (che avrebbero avvicinato Israele al mondo arabo) sono state poste dall’Iran, sostenitore di Hamas, e anche dall’interesse della Russia ad aprire un nuovo fronte che distragga l’Occidente dal sostegno all’Ucraina.

In sostanza, il conflitto tra israeliani e palestinesi rischia di rappresentare ancora il paradigma dello scontro dei blocchi, oggi riconfigurato tra Occidente e “Sud globale”.  Tuttavia, considerato anche che al recente vertice di San Francisco sono stati raccolti segnali di  distensione tra Usa e Cina, per evitare una ulteriore escalation del disordine globale si può auspicare che il Consiglio di Sicurezza riesca ad approvare una Risoluzione che stabilisca per Gaza una forza multinazionale di sicurezza e un’Autorità provvisoria garantite dal coinvolgimento dei Paesi arabi moderati, con una finalità: da un lato restituire dignità e speranza alla popolazione palestinese, e dall’altro proteggere Israele dalla minaccia terroristica.

Un solo obiettivo concreto è dunque necessario perseguire per un futuro di stabilità anche in Medio Oriente: evitare lo scenario di una “guerra esistenziale” tra palestinesi e israeliani, e dar voce al linguaggio del diritto internazionale e della diplomazia.

CREDITI FOTO: EPA/ATEF SAFADI



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