L’Europa e il compromesso perduto tra capitalismo e democrazia

In ossequio all’ortodossia neoliberale, l’Unione europea, nata per assicurare un futuro di pace, si è trasformata in un dispositivo volto a mettere l’ordine economico al riparo dall’ordine politico. Pubblichiamo la premessa dell’ultimo libro di Alessandro Somma, “Quando l’Europa tradì se stessa. E come continua a tradirsi nonostante la pandemia” (Laterza, 2021).

Alessandro Somma

L’Europa unita è nata per assicurare al Vecchio continente un futuro di pace, e un argine contro il ripetersi delle dittature responsabili del secondo conflitto mondiale. Ha però visto la luce in un’epoca segnata dalla Guerra fredda, ed è stata pertanto concepita per rinsaldare il fronte dei Paesi capitalisti in lotta contro il blocco socialista. Ciò non ha però impedito agli Stati di promuovere una precondizione per il mantenimento della pace: una redistribuzione della ricchezza realizzata dai pubblici poteri fuori dal mercato tramite il welfare, e nel mercato con la tutela del lavoro e la piena occupazione. Per produrre così un accettabile equilibrio tra capitalismo e democrazia, la cui rottura aveva caratterizzato gli anni bui tra il primo e il secondo conflitto mondiale.

L’implosione del blocco socialista ha fatto venir meno la necessità per il capitalismo di mostrarsi con un volto umano. Sono così prevalse tendenze emerse al principio degli anni Ottanta nei Paesi i cui esecutivi hanno informato la loro azione all’ortodossia neoliberale, e affidato al mercato la redistribuzione della ricchezza: i pubblici poteri dovevano limitarsi ad assicurare il libero incontro di domanda e offerta, e ridurre a monte l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Il nuovo credo si è affermato attraverso il riconoscimento all’Europa unita della competenza esclusiva in materia monetaria, unito alla scelta di informare le relative politiche al solo controllo dell’inflazione. Così, sebbene le politiche fiscali e di bilancio spettino formalmente agli Stati, questi sono privati degli strumenti indispensabili a promuovere la piena occupazione. Simile l’effetto della misura che ha avviato il percorso verso la moneta unica: la libera circolazione dei capitali, che impone di attirarli abbattendo i salari e la pressione fiscale sulle imprese e sui redditi elevati. Effetto moltiplicato dalla forza disciplinante dei mercati, a cui gli Stati sono costretti a rivolgersi per sovvenzionarsi, a fronte del divieto di finanziamento monetario dei bilanci pubblici.

Nel tempo questo schema è stato consolidato attraverso meccanismi complessi, tutti volti ad azzerare gli spazi di manovra fiscale e di bilancio del livello nazionale, e con ciò a minare alle fondamenta l’equilibrio tra capitalismo e democrazia. A questi si è poi aggiunto il ricorso a una sorta di mercato delle riforme: qualsiasi trasferimento di risorse ai Paesi membri, da quelli provenienti dai fondi strutturali a quelli contemplata dal bilancio europeo, passando per l’assistenza finanziaria, è condizionato alla realizzazione di riforme di matrice neoliberale.

Questo schema non è stato messo in discussione durante la crisi del debito, che è stata anzi ritenuta il riscontro di un insufficiente allineamento all’ortodossia neoliberale. Il risultato è stato il consolidamento dell’Unione europea nella sua essenza di dispositivo votato a esaltare il mercato come strumento per redistribuire ricchezza, e a screditare lo Stato come ostacolo al suo corretto funzionamento. Il tutto mentre si approfondisce il solco tra Paesi virtuosi e Paesi in difficoltà: l’Unione in quanto area monetaria incompleta, fondata cioè su una moneta unica ma non anche su un bilancio comune, è inevitabilmente destinata a produrre un simile risultato.

In molti hanno visto nella crisi economica seguita all’emergenza sanitaria l’occasione per ripensare finalmente i fondamenti dell’Europa unita. Alcune iniziative intraprese per affrontarla sembrano preludere a simili sviluppi: per la prima volta si sono ammesse forme di indebitamento comune, e si sono mossi timidi passi verso un bilancio di tipo federale. Non vi sono però altri segnali di un mutamento di rotta: le modalità scelte per affrontare l’emergenza e finanziare la ripresa sono complessivamente concepite per alimentare il mercato delle riforme e incrementare il solco tra Paesi virtuosi e Paesi in difficoltà.

La verità è che l’Europa unita, nata per assicurare un futuro di pace, ha poi affidato al mercato la redistribuzione della ricchezza, e si è trasformata così in un dispositivo volto a mettere l’ordine economico al riparo dall’ordine politico: a impedire qualsiasi mediazione tra il capitalismo e la democrazia. Un mercato spoliticizzato è però un motore di ingiustizia sociale, e in ultima analisi una fonte di insanabili conflitti tra Stati e tra persone.

Tutto ciò evidenzia la distanza tra l’ideale federalista diffusosi alla conclusione del secondo conflitto mondiale e l’attuale assetto della costruzione europea. Vi sono state e vi sono però diverse sensibilità federaliste, e tra queste quella di matrice neoliberale mira esattamente a quanto ha realizzato l’Unione: la spoliticizzazione del mercato, ovvero la neutralizzazione del conflitto redistributivo ottenuta eliminando qualsiasi cinghia di trasmissione tra questo e l’azione dei pubblici poteri.

Vi sono state altre forme di federalismo, per le quali la cessione di sovranità nazionale doveva avvenire a favore di una costruzione sovranazionale incaricata di redistribuire ricchezza, ovvero di alimentare la giustizia sociale come presupposto della pace. Queste forme di federalismo non hanno direttamente ispirato l’Europa unita, ma neppure sono state scartate nei dibattiti circa il suo sviluppo: almeno sino a quando la libera circolazione dei capitali non ha avviato la sua trasformazione in un dispositivo neoliberale, attrezzato per neutralizzare qualsiasi idealità alternativa. Ripensare i fondamenti dell’Unione significherebbe dunque riallacciare i fili di una storia interrotta, e tuttavia parte integrante della costruzione europea.

L’indisponibilità dell’Europa unita a cambiare rotta come reazione alla crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria si presta a produrre gli scenari più disparati. Può condurla all’implosione, a un irreversibile cedimento sotto il peso di un crescente impoverimento e imbarbarimento dei suoi popoli. La consapevolezza di un simile rischio può in alternativa riportare in auge le idealità cui rinvia il federalismo alternativo a quello allineato al pensiero unico, consentendo così di risintonizzare l’Europa unita con le ragioni della giustizia sociale. Al contrario, la volontà di tenere in vita una costruzione fondata su un rapporto compromesso tra democrazia e capitalismo può condurre a vedere nella repressione del conflitto sociale l’unica strada percorribile.

Questo libro non fornisce certezze sul futuro della costruzione europea, anche se le sue pagine non abbondano certo di ottimismo circa la sua capacità di emanciparsi dall’ortodossia neoliberale. Offre però una panoramica sulla nascita e lo sviluppo della costruzione e sulle idealità che l’hanno ispirata, utile a suggerire che l’Europa unita, esattamente come lo Stato nazionale, non può essere fine a se stessa: sarà opportuno difenderla se sarà capace di alimentare una comunità politica fondata sulla solidarietà, e dunque sulla redistribuzione della ricchezza dai territori e dalle persone con più risorse, ai territori e alle persone con meno risorse. Se così non sarà, se cioè l’Europa unita dovesse rivelarsi irriformabile, occorrerà pensare a nuove modalità con cui promuovere ciò per cui si è avviata l’avventura europea: nuove architetture per rapporti tra Stati capaci di ripristinare l’equilibrio tra capitalismo e democrazia, presupposto irrinunciabile per costruire un futuro di pace.



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