Quella scuola che rispecchia una società in crisi

“La sala professori”, film tedesco diretto da İlker Çatak, è una metafora della nostra società che prende forma all’interno del luogo dove tutti noi entriamo in contatto con il mondo: la scuola. Qui, a partire da un furto, si sviluppano le vicende che mostrano uno scontro tra l’idealismo di un'insegnante e la freddezza della politica punitiva della tolleranza zero verso i sospetti, che replica il modello culturale competitivo e individualista in un mondo diviso tra vincenti e perdenti, dove le responsabilità dei disagi sociali ricadono sui più deboli.

Luca Tedoldi

Per un professore, andare a vedere un film sulla scuola, per di più uno che si chiama “La sala professori”, è un rischio. Dopo rappresentazioni macchiettistiche con personaggi tutti schiacciati su una sola dimensione, quella più facilmente commestibile e di vacuo intrattenimento, o altre drammatizzanti ma solo per poter offrire il pretesto per uno o due eroi che si stagliano battendosi contro il male, il timore è legittimo. In realtà non è solo un film sulla scuola e quella sala è una metafora della nostra società (dunque questa non è una recensione).
Si comincia in medias res: in una scuola media tedesca si sono verificati dei furti. In una delle prime scene gli insegnanti provano a torchiare  due bambini, entrambi col viso basso, silenziosi e riluttanti alla delazione, per venire a sapere chi sia stato. La camera si ferma su Carla Nowak, giovane insegnante di Matematica, solidale col loro disagio, e continuerà a farlo per tutto il film, con il suo sguardo teso a capire il non verbaleF dei dodicenni con cui lavora. Chi non fa questo mestiere dovrebbe entrare nell’ottica di chi deve quotidianamente imparare a leggere i gesti, le pose, le camminate, le occhiate e tutto il silenzio eloquente con cui gli studenti animano la classe. Lei li osserva con dedizione e ardore; per tutto il film non vediamo fidanzati, amici o componenti della sua famiglia, non sappiamo altro di lei se non che è a scuola e pensa solo alla scuola e vive per la scuola e per i suoi studenti: la sua professione è il suo essere, ciò che la identifica pienamente.   Il responsabile dei furti, almeno secondo i bambini del primo interrogatorio, è Ali, figlio di genitori turchi, che non sembrano apprezzare lo slogan “tolleranza zero” esibito dalla dirigente e, dopo essersi rifugiati nella loro lingua madre, vanno via stizziti, attribuendo l’imputazione al pregiudizio culturale. Anche la perquisizione in classe, con i portafogli dei bambini sul banco, è un dramma da dimenticare quanto prima. Carla non può accettare questi fallimenti educativi, non può tollerare la mancanza di flessibilità di chi vuole solo far pesare la durezza della legge, perciò escogita un modo per trovare i veri responsabili dei furti e liberare i bambini sospettati dal pregiudizio. Ma qual è il modo giusto per riparare un’offesa? Quando le buone intenzioni si trasformano in conseguenze inattese?
Avendo notato una collega appropriarsi di alcune monete, decide di nascondere una telecamera in sala professori: ecco l’eccesso di zelo da cui si scatena la valanga. La camicia inquadrata porta alla segretaria della scuola, ma lei è anche la madre di un alunno della professoressa, Oskar. Cosa bisogna fare per evitare un altro interrogatorio? Carla affronta la segretaria con convinzione ma senza durezza, proponendole di risolvere tutto tra loro, senza clamore. L’accusa produce la reazione adirata della segretaria ma anche, di nuovo l’inflessibilità della dirigenza scolastica, il suo allontanamento temporaneo da scuola. Le buone intenzioni di Carla hanno già creato un dramma, che attende solo di espandersi ancora. Come spesso capita, chi dovrebbe spiegare le sue azioni, sbraita contro le modalità di scoperta delle sue responsabilità: in un paese che per decenni ha subito la normalizzazione di un politico che con la potenza del denaro e delle sue televisioni ha fatto approvare leggi per scappare dai processi in cui era l’imputato, è facile evocare il bisogno della certezza della pena, ma qui non si tratta di plutocrati anticostituzionali che comprano sentenze e senatori; si tratta di minori, del loro benessere, del loro sano e pacifico rapporto con gli insegnanti e con i propri coetanei. Qui l’idealismo della brava insegnante si scontra con un contesto che preferisce la freddezza poliziesca al mite dialogo. Qui il suo coraggio da Antigone deve fare i conti anche con il semplicismo di una verità unilaterale che corre ad abbracciare la protesta ed il vittimismo della sospettata, la segretaria. Infatti l’articolo che esce sul giornalino della scuola è un altro incendio. Gli studenti, ritratti con attenzione ai loro capelli ed abiti estrosi, intervistano Carla con una posa inquisitoria speculare a quella da cui lei voleva liberare quella che lei chiama “famiglia scolastica” e chiamano “verità” uno scoop che non ha compassione per lei, l’insegnante ormai ostracizzata. Ognuno ha il suo piccolo punto di vista da far esplodere contro l’altro.
Il colpevolismo che già si era diffuso nella sua classe, rivolto contro Oskar, il figlio della sospettata, ora lo deve pagare lei. Ma Carla, ricordiamoci, insegna Matematica: in una scena rivelatrice mostra alla classe che ogni verità ha bisogno di prove e dimostrazioni, non può essere solo asserita. Quanta umanità agonizza nell’uso della Legge come mezzo per costruire una struttura chiusa ed apparentemente ben funzionante? Quanto si perde il senso di una scuola che, come le società in piena crisi di svuotamento democratico, divide le persone in promossi e bocciati, vincenti e sfigati, e con un controllo pervasivo gode nel valutare e punire? Alla fine ciò che conta è che due persone, con una sorta di cerimonia affine alla giustizia riparativa, possano riconoscersi come parte della stessa comunità e guardarsi negli occhi, come fanno, in classe, soli e con la porta chiusa a chiave, Oskar e Carla, il ragazzo che l’ha colpita col suo stesso computer portatile, dove c’era il video da cui è partito tutto, e lei, eroina tragica, col suo paternalismo ingenuo, il sopracciglio tumefatto. Ed un silenzio sovrano che unisce ciò che sembrava separato.
Nella scena conclusiva, inquadrati dal basso, due poliziotti, con le loro divise palesemente in contrasto simbolico e morale con il senso delle istituzioni scolastiche, portano via Oskar, ancora seduto sulla sedia, sollevandola verso l’alto, in un solenne procedere che mostra il paradosso di una dissidenza arrestata, di una renitenza incomprensibile ai più, di un dissenso ostinato e sfuggito ai radar delle autorità. Lo slogan più volte ripetuto dalla dirigente scolastica ricorda un saggio del 1999, in francese “Les prisons de la misère” ma tradotto in italiano con “Parola d’ordine: tolleranza zero”, di un sociologo francese, Loic Wacquant. Qui il sociologo segnalava la sparizione dello stato sociale in parallelo con la conversione di tutte le problematiche sociali economiche in affari penali. Studiando lo sviluppo della politica della “tolleranza zero” negli Stati Uniti, insieme alla sua serpeggiante diffusione in Europa, Wacquant notava come la gestione poliziesca e giudiziaria della povertà aveva ed ha lo scopo di liberare le istituzioni pubbliche da ogni responsabilità circa le cause sociali dell’insicurezza dei cittadini per poter ridurre le relazioni col disagio all’approccio punitivo. La storia del film si conclude con la riluttanza di Oskar a rispettare la sanzione dell’allontanamento da scuola per dieci giorni: una riluttanza che possiamo interpretare come il rifiuto di far pesare tutta la catena degli errori solo su di lui, responsabile dell’ultimo, assolvendo gli autori di tutti quelli precedenti. E non è nemmeno un caso che sua madre, la presunta ladra, sia stata anch’essa sospesa e allontanata dal lavoro. L’insistenza sulla responsabilità individuale da decenni si configura come un mantra moralistico sul quale si basa la giustificazione dell’accanimento del securitarismo verticale e delle politiche di controllo sui più sfortunati, i quali, da svantaggiati, diventano immeritevoli, sconfitti della competizione, pigri nell’istruzione e nel merito. Ma Oskar resiste, come un altro Bartleby, tacendo e guardando fisso negli occhi.

 



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