Una, nessuna e zero: riflessioni sulla ‘questione femminista’ del Quirinale e oltre

Perché è così difficile, a sinistra, dare fiducia a una donna affidandole un mandato di rappresentanza?

Monica Lanfranco

Prendetevi una decina di minuti per ascoltare le parole di una splendida novantenne: si tratta di Lidia Menapace, (per la quale più volte si sono raccolte le firme, senza successo, per la candidatura a senatrice a vita) che intervenne a Milano, nel 2013, in un difficile confronto pubblico dopo una aggressione sessista da parte di alcuni ‘compagni’ subìta da tre giovani attiviste in un famoso centro sociale frequentato anche da gruppi femministi.

In quell’occasione si assistette a una dolorosa, ma non inaspettata, divisione tra donne: quelle che sostenevano il buon nome del centro sociale contro le tre ‘traditrici’ della causa collettiva, (più preziosa della loro vicenda personale) e le altre, portatrici di una consapevolezza non scontata. Quella che il patriarcato di sinistra esiste, è forte, è radicato anche tra le ‘compagne’, ed è più pericoloso di quello di destra, perché impone alle donne di sinistra di aprire un conflitto lacerante dentro al proprio mondo, partito, sindacato, associazione o gruppo che sia, le cui conseguenze sono dolorose.

Se apri quel conflitto, a tuo rischio e pericolo, lo sai: non troverai soltanto gli uomini ostili ma anche molte compagne di strada. Il nodo è sempre uno, il più arduo da dipanare, quello del potere, che gli uomini da millenni maneggiano con agio perché lo incarnano, mentre le donne, anche le più scafate, sono sempre un passo indietro. Il motivo principale è che per invalidare l’autorevolezza di una donna, (costruita spesso a prezzo di rinunce che ai colleghi maschi non sono richiesti), basta tirare in ballo la presunta, o reale, condotta sessuale di quella donna. Non vale lo stesso per gli uomini, anzi è vero il contrario, come gli imbarazzanti eventi italiani nella corsa al Quirinale hanno evidenziato: oltre 62 mila cittadine e cittadini hanno firmato, in poche ore, una petizione denunciando, prima del suo tramonto, che la candidatura di un anziano satrapo plurinquisito era, in primis, un’offesa alle donne, ma questa riflessione non è venuta in modo forte e chiaro dagli ambienti politici a sinistra. Nel mondo femminista sono stati lanciati appelli, (fotocopia di ogni passaggio elettivo della prima carica dello Stato da quando ne ho memoria), sulla necessità di avere, finalmente, una donna al Quirinale. Pochi però i nomi avanzati, molta la polemica sul fatto che non basta l’auspicio generico di donna purchessia: anche Meloni e Casellati sono donne, ma non è sufficiente essere dello stesso sesso per condividere la stessa visione del mondo.

Una risposta al perché sia così difficile, a sinistra, dare fiducia a una donna affidandole un mandato di rappresentanza sta nella connessione tra il linguaggio e il potere politico.

Siccome l’universale è maschile è ovvio pensare a un uomo come rappresentante della collettività: questo meccanismo di identificazione del maschile come universale e del femminile come parziale è valido sia per le donne che gli uomini nella cultura patriarcale, con la differenza sostanziale che le donne negano il sostegno alle simili perché assimilano, fin da piccole, lo stereotipo della competizione tra loro per primeggiare e guadagnare il consenso dei maschi. La negazione dell’autorevolezza femminile, specie se si tratta di politica e di presa di decisioni, è dunque soprattutto il risultato di una guerra tra donne. Le donne non votano le donne, dunque perché dovrebbero farlo gli uomini? Una perfetta profezia auto avverante. Non si tratta però dell’adagio-boomerang secondo il quale sono le donne stesse le migliori nemiche delle donne, ma di un conflitto che pone le donne, a differenza degli uomini, nella condizione di dover scalare contemporaneamente due muri di gomma: quello del potere maschile che le ostacola e quello dell’inimicizia e del mancato riconoscimento reciproco tra donne. Quando una esce dal cono d’ombra e primeggia tra le tante allora scatta il meccanismo di blocco: nel lavoro, nell’associazionismo, nei luoghi della politica, nei gruppi di donne così come nei partiti o sindacati. Nel femminismo la trappola che da simbolica diventa reale racconta che, se è vero che ciascuna parte da sé nella costruzione di senso come soggetto politico, (e questo è un terreno condiviso), non è detto che ciò si traduca in una relazione di fiducia se si tratta di affidare all’altra, nelle istituzioni, la tua visione del mondo, i desideri e i progetti a essa connessi.

Di recente il professor Barbero si è chiesto se non ci siano differenze strutturali che rendano alle donne più difficile avere successo in certi campi, e se in media, alle donne manchino aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi. Gli ha fatto eco Luca Ricolfi notando che nel mondo di oggi le donne ai vertici politici provengono da destra, ovvero in ambiti culturali dove, aggiungo io, si afferma senza remore che una donna è valida perché ha le palle, cancellandone la differenza.

Una prima risposta viene da Elena Stancanelli che sottolinea come il problema della sinistra e delle forze progressiste, in Italia, non è tanto con le donne, ma con il femminismo. Compagno in piazza, fascista a letto, ricordava Menapace nel video, in una schietta sintesi che mette a nudo la doppia morale della sinistra e dei movimenti.

Ma c’è anche da considerare il vulnus dentro al pensiero e alla pratica femminista nell’affrontare il tema della rappresentanza politica, non importa se per il consiglio comunale di un piccolo centro fino alla Presidenza della Repubblica. Una questione segnata, in decenni di teoria filosofica guidata dall’autorevole Libreria delle donne di Milano, dal dirsi estranee alla politica della rappresentanza, con il risultato di avere reso difficile e fragilissimo il legame tra le poche donne con voce femminista nei partiti della sinistra e il movimento. Vorrei rammentare una piccola esperienza, forse utile per ragionare sul nesso tra donne, potere, autorevolezza e rappresentanza.

Troppo rapido, e già cancellato, il sogno di un partito femminista, addirittura di una rete di partiti femministi è stato sognato, e brevemente realizzato, in Svezia: nel 2014 Soraya Post, attivista di origine rom, fu eletta al Parlamento Europeo dal partito Feminist Initiative. La prima femminista eletta da un partito dichiaratamente femminista in Europa, aveva come slogan Fuori i fascisti, dentro le femministe. Per l’Italia è chiaramente un film di fantascienza; eppure dal 2014 al 2018 Soraya Post ha girato l’Europa, insieme alla ex segretaria del Partito Comunista svedese Gudrun Schyman, (che lasciò una considerevole carriera nel suo partito per costruire FI) provando a radunare idee ed energie per costruire una rete di formazioni simili in altri paesi europei. In Italia Post è stata, tra il 2015 e il 2016, a Genova, Imola e Torino; alcune attiviste italiane hanno partecipato a due convegni a Bruxelles nel 2017 e, prima della pandemia, fu organizzato un appuntamento a Milano con due fondatrici del partito femminista spagnolo, (uno dei più antichi e longevi nel panorama europeo) prendendo spunto da un testo forse sconosciuto alle generazioni più giovani per disegnare l’ipotesi di un governo di lei.

Il libro ispirativo si chiama Terra di lei, ed è stato scritto nel 1915 dalla sociologa e utopista statunitense Charlotte Perkins Gilman. Capace di sottile umorismo nel guardare all’ottusità dei maschi del suo tempo, Perkins Gilman racconta di un paese governato dalle donne, che i viaggiatori maschi giunti in quella ‘strana’ terra non riescono proprio a concepire: uno sconcerto che, a oltre cento anni di distanza, non è mai finito, visto come vanno le cose nella politica italiana.

Ma anche nel movimento femminista c’è impaccio a fare nomi per incarnare il governo di lei: nella vicenda del Quirinale per Emma Bonino è troppo tardi, a suo tempo fu criticata da alcune per le posizioni giudicate troppo neoliberiste, dimenticando che è a lei e alle altre radicali che noi tutte dobbiamo molto nella lotta per i diritti civili. Anche per l’altro nome circolato, quello di Rosi Bindi, la mobilitazione è stata scarsa. Alcune domande: cosa frena il mondo femminista a proporre donne capaci come candidate a qualunque livello della politica, in grado di mettere fine al monopolio maschile con pratiche e progetti segnati dalla differenza sessuale? Siamo forse eccessivamente intransigenti le une verso le altre? Abbiano introiettato così tanto lo stigma del dover dimostrare sempre il doppio di qualunque attitudine e capacità rispetto agli uomini che nessuna ci pare abbastanza capace, degna di fiducia? Temiamo la nostra ambizione, quindi quella dell’altra, e di conseguenza il suo eventuale tradimento una volta guadagnato il posto in vetta, mentre lo aspettiamo, e lo reggiamo meglio, se arriva da un uomo? Queste, e ovviamente altre, sono domande alle quali non è facile rispondere, ma penso siano da considerare nel dibattito su potere e politica. Un governo di lei sarebbe possibile, penso, se mettessimo in fila le centinaia di nomi femminili di ogni età in grado di offrire soluzioni ai problemi del paese, in tutti i campi del sapere. Sarebbe già un bel passo avanti se, come hanno fatto in Svezia, sognassimo di costruire, dai piccoli centri fino al governo nazionale, luoghi politici e amministrativi, votati anche da uomini di ottima volontà, basati su visioni e pratiche femministe, affinchè un governo di lei vedesse la luce.



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