Questo è un mondo per vecchi

La guerra ha improvvisamente annichilito le voci dei giovani in lotta per arginare gli effetti sempre più devastanti del cambiamento climatico.

Fabio Armao

La guerra è sempre stata la forma più estrema di tradimento delle giovani generazioni, perché le manda al massacro, lasciando uno strascico di orfani e vedove con i loro vissuti di deprivazioni, sensi di colpa e, talvolta, rimostranze e rancori, contro i nemici e, ma troppo di rado, contro i propri stessi statisti che hanno lucrato carriere politiche sui cadaveri dei soldati. Una guerra come quella in Ucraina, che si accanisce contro i civili inermi, rade al suolo le città e tutto ciò che esse rappresentano, che genera milioni di profughi, tra i quali troppi bambini e adolescenti non accompagnati, oltre a tradirle le priva di qualunque reale futuro.

Siamo entrati nel terzo millennio con tutta la protervia, oltre alle speranze, che un’innovazione tecnologica inarrestabile e il crollo del comunismo sembravano giustificare, seppure a condizione di tagliar fuori dal nostro sguardo periferico le decine di conflitti ancora in corso e una crescita delle diseguaglianze senza precedenti tra Nord e Sud del pianeta e all’interno dei nostri stessi paesi sviluppati. A riportarci su un più corretto piano di realtà ci hanno pensato i giovani di organizzazioni quali “Fridays for Future”, la cui mobilitazione in ogni parte del mondo in difesa dell’ambiente ci ha fatto intravedere la possibilità di una causa infine davvero comune, universale ed emancipativa: la salvezza del pianeta; per la quale valeva la pena cambiare i nostri paradigmi, gli stili di vita se necessario, e lottare per imporre un ripensamento anche della logica ferrea e inarrestabile del profitto che anima il capitalismo globalizzato. E poi, a un tratto, sono arrivati i virus.

Il primo, naturale, il Covid-19, ha messo in evidenza tutti i limiti dei sistemi politici, costringendoli però, tutto sommato, a riassumere un ruolo di guida, a intervenire nel tentativo almeno di compensare alcune delle storture più evidenti generate da decenni di “ritirata dello stato” di fronte al trionfo del libero mercato. La pandemia andava nella direzione di rafforzare la credibilità della pretesa dei giovani che fosse ormai irrinunciabile arrestare lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali e arginare gli effetti sempre più devastanti del cambiamento climatico: il virus era pur sempre il prodotto di processi di spillover dal mondo animale, indotti dagli abusi della natura da parte dell’uomo.

Il secondo, culturale, la guerra, ha avuto l’effetto di un violentissimo e repentino rinculo (per rimanere in campo bellico) che ha improvvisamente annichilito le voci di quegli stessi giovani. Per questa ragione, le immagini delle macerie umane e materiali che giungono, sempre più incalzanti, dall’Ucraina divengono la testimonianza anche di uno “scontro generazionale” in atto. La guerra rappresenta il tentativo dei vecchi di riappropriarsi del centro della ribalta.

È vecchio Putin, che ha bisogno di evocare nientemeno che lo spirito dei defunti zar nel tentativo di darsi una parvenza di legittimità, non potendo vendere all’opinione pubblica interna la propria vera identità di principale protagonista di un capitalismo predatorio e selvaggio che ha gettato sul lastrico la Russia. Ed è vecchia la soluzione dell’“operazione militare speciale” che mischia, in un macabro intrico di morte e distruzione, vani dispiegamenti di terra e di mare, profluvio di truppe mercenarie in stile coloniale e di semplici killer a pagamento (con barbe o senza), accanimento gratuito sulle civiltà urbane affidato a truppe di coscritti schiavizzati da ufficiali corrotti (le condizioni meschine delle forze armate russe le raccontava già con grande lucidità Anna Politkovskaja nei suoi reportage, prima di essere uccisa nel 2006). Una soluzione provocatoria, ancor più che pretestuosa e arrogante, per la vastità dei danni ambientali che sta provocando, destinati a durare decenni – dalla contaminazione (anche radioattiva) del suolo e delle falde acquifere provocate dai bombardamenti e dai detriti che si lasciano dietro, all’inquinamento dell’atmosfera conseguenza degli incendi (in particolare dei depositi di combustibili).

Sono già vecchie le nostre democrazie, nonostante la loro giovane età storica, che si sono dimostrate incapaci di mantenere le promesse di integrazione e giustizia sociale che avevano millantato fin dalle origini. Invece di investire sulla costruzione di un proprio specifico immaginario, troppo a lungo hanno preferito gloriarsi del riflesso deformato garantito dal confronto con totalitarismi e autoritarismi di varia natura, che permetteva loro di apparire comunque “più belle e più superbe che pria” – per parafrasare il Nerone di Petrolini che contempla l’incendio di Roma – nonostante, tra l’altro, i ripetuti fallimenti dei loro tentativi di esportare i valori democratici sulla punta del fucile. Il successo elettorale dei movimenti nella sostanza razzisti e xenofobi, la riproposizione di pose fasciste tanto più macchiettistiche quanto più riproposte da leader cresciuti in democrazia e che al fascismo, con ogni probabilità, non sarebbero sopravvissuti un solo giorno è una prova del suo invecchiamento precoce. È vecchia, più in generale, la riscoperta delle leadership carismatiche e la riduzione dei partiti ad apparati per lo più notabilari, da mobilitare soltanto in occasione delle scadenze elettorali – leggo nei commenti alla prima tornata delle elezioni presidenziali in Francia che Macron “è un grande seduttore” ma “con una vena di cinismo”, “un uomo solo” che “non è riuscito a costruire un partito” (“Corriere della Sera”, 12 aprile 2022): un po’ tardiva, forse, come presa d’atto di una crisi da tempo sistemica della politica novecentesca.

È vecchio infine il capitalismo che, posto dinanzi all’opportunità di assumere su di sé il progetto, quello sì rivoluzionario, di salvare il pianeta, si limita a esibirlo in massicce operazioni di marketing pubblicitario, preferendo nella realtà mantenersi nelle proprie comfort zones dell’accumulazione originaria e violenta delle risorse, del lavoro schiavistico, della speculazione finanziaria – in piena sintonia con gli stati, anche democratici, che non disdegnano affatto i vantaggi garantiti dalla finanza occulta e dai paradisi fiscali. La guerra di Putin non ha soltanto rinvigorito oltre misura il complesso militare-industriale (che, peraltro, non soffriva di grosse flessioni di domanda e di utili); ma ha rianimato i settori delle energie fossili e altamente inquinanti e restituito dignità, persino una patente green, alle centrali nucleari – e ha distratto l’attenzione da un Jair Bolsonaro che in Brasile, nei primi tre mesi del 2022, è riuscito ad abbattere, è il caso di dirlo, il record assoluto di deforestazione in Amazzonia: 941 Km2, un’area più ampia della città di New York, con un incremento del 64% rispetto all’anno precedente.

(credit foto ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)



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