Non esistono guerre giuste, ma ne esistono di più legittime e di meno legittime

Pretendere di rimanere equidistanti, equiparare le motivazioni dei belligeranti, cercare alibi nelle guerre precedenti è una forma di pacifismo retorico, un puro esercizio di stile che, suggerendo l’astensione da qualunque intromissione nel conflitto, favorisce oggettivamente chi dispone di maggiori risorse.

Fabio Armao

Continuiamo ad assistere a dibattiti sulla guerra in Ucraina che mettono a confronto posizioni inconciliabili, a volte in format che fomentano ad arte lo scontro per motivi di audience, finendo anche con l’alimentare i deliri narcisistici di opinionisti più o meno accreditati – un lusso, la guerra come mero intrattenimento, che sempre meno comunità civili possono permettersi, impegnate come sono nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Cercare di farsi un’idea in questo marasma di opinioni, molte delle quali parimenti legittime e condivisibili per quanto divergenti, non è facile. Tanto più se ai confronti urlati si sommano il flusso ininterrotto di notizie e di immagini (delle quali, oltretutto, si discute spesso l’autenticità a fronte del fatto che la propaganda è uno degli strumenti prediletti dei belligeranti), nonché le analisi strategiche e geopolitiche degli scenari dei combattimenti attuali e futuri. Provo a cercare e a proporvi dei criteri di orientamento distinguendo tre posizioni: etica, giuridica e politica.

Posizione etica
Non ho dubbi che il pacifismo sia una posizione eticamente superiore a qualunque altra. E non tanto perché la guerra è un male in sé; quanto, piuttosto, perché, come la gotta, è la “malattia dei re”, uno spreco di risorse collettive consentito soltanto a chi ha il potere di dotarsi di armamenti più o meno sofisticati e di discutere delle quote di bilancio da destinare alle forze armate, almeno finché si ha un bilancio a cui attingere. Se mi è consentito parafrasare il pensiero di Papa Francesco, la guerra ha sempre avuto una connotazione di classe, in fin dei conti: chi ha più soldi e governa sa come costruirsi una giusta causa e dove trovare, oltre alle armi, anche i soldati disposti a perorarla a rischio della propria vita. A tutti gli altri non rimane che subirla, la guerra, o cercare di sfuggirle migrando. Tale realtà, tra l’altro, contribuisce a spiegare come mai nella storia le “rivolte degli schiavi” siano stati episodi ben rari e, al tempo stesso, fa del pacifismo la più democratica delle opzioni etiche disponibili, perché si pone a tutela delle moltitudini dei poveri e degli indifesi.

A guerra in corso, tuttavia, quando siamo stati così colpevolmente pusillanimi da non impedirne lo scoppio, dobbiamo pur essere in grado di esprimere un’opinione su di essa. E il pacifismo, da questo punto di vista, non è di grande aiuto – a meno di non adottarne una visione attiva e militante, rischiosa e a volte efficace, che riconosce un diritto di resistenza basato su tecniche non violente di disobbedienza civile (quelle, per intenderci, che gli oppositori di Putin mettono in atto nelle piazze di Mosca o di San Pietroburgo). Pretendere di rimanere equidistanti, equiparare le motivazioni dei belligeranti, cercare alibi nelle guerre precedenti (combattute magari con pari efferatezza da coloro che adesso stigmatizzano come aggressore uno dei contendenti) è una forma di pacifismo retorico, un puro esercizio di stile (talvolta, ma soltanto nei casi più autentici e sinceri, una professione di fede) che, suggerendo l’astensione da qualunque intromissione nel conflitto, favorisce oggettivamente chi dispone di maggiori risorse e, di conseguenza, è presumibile sia l’aggressore piuttosto che l’aggredito.

Posizione giuridica
I filosofi del diritto, nel corso dei secoli, hanno elaborato una sofisticata dottrina della guerra giusta, basata su tre pilastri – la legittima autorità, la giusta causa e i giusti mezzi –, che rappresenta un tentativo di regolamentare la guerra senza, però, arrivare a metterne in discussione il presupposto essenziale di prerogativa esclusiva del potere sovrano. La discussione di ciascuno di questi tre pilastri ha riempito intere biblioteche (uno dei testi di riferimento rimane ancora oggi Guerre giuste e ingiuste di Michael Walzer); ma l’applicazione storica dei princìpi giuridici che incarna è stata alquanto lacunosa e discontinua. Da un lato, infatti, la giustizia internazionale in campo bellico si è manifestata per lo più come giustizia dei vincitori sui vinti; dall’altro, ha pagato a lungo l’incapacità di concepire un’autorità sovranazionale davvero sopra le parti e dotata di un adeguato potere di sanzione.

Oggi, la mera esistenza di una Corte penale internazionale rappresenta un indubbio passo avanti, nonostante i perduranti limiti alla sua azione. Paradossalmente, il fatto che USA, Russia e Cina non intendano riconoscerla è un segno di forza e non di debolezza, la dimostrazione che ai loro occhi la Corte incarna un progetto “eversivo”, proprio perché offre alla comunità degli stati l’opportunità di superare una volta per tutte le tradizionali logiche della politica di potenza. Il loro rifiuto costituisce una prova autorevole, seppure ex adverso, della fondatezza della legittimità giuridica della Corte.

Posizione politica
E proprio da quest’ultimo concetto di legittimità vorrei partire per proporne però una lettura più sostanziale, politologica, che possa valere almeno come criterio di orientamento. La legittimità di una guerra non va cercata al di fuori di essa, nelle “qualità” dell’attore che vi ricorre o nella plausibilità delle motivazioni che adduce per giustificarla, ma nella guerra in sé. Ciò che davvero conta è chi la combatte, come e dove. Le motivazioni dei soldati e il consenso di cui godono presso la popolazione civile, unito alla discriminante di mettere a repentaglio la propria stessa vita e quella dei propri cari, sul proprio suolo e non fuori dai confini (l’invasione di uno spazio altrui denota in partenza una volontà di proiezione di potenza) determinano il grado di legittimità di una guerra. In estrema sintesi, il fatto che una guerra venga vissuta come difensiva piuttosto che offensiva.

Una “guerra di un popolo” è più legittima di una guerra scatenata da un autocrate e persino più di quella di un governo che afferma di voler esportare la democrazia; ovvero un modello che, per definizione, dovrebbe semmai contraddistinguersi per la capacità di risolvere i conflitti con procedure e metodi non violenti. Nel momento in cui la pretesa di essere dei liberatori non viene riconosciuta come autentica dalle popolazioni che si vorrebbe emancipare, se la democrazia non è in grado di accettarlo, vuol dire che sta pericolosamente prendendo derive autocratiche.

Anche i mezzi impiegati ci dicono molto: un bombardamento a tappeto è meno legittimo della resistenza strada per strada; l’attacco terroristico indiscriminato è meno legittimo dell’uccisione mirata di un nemico: da un punto di vista fattuale, ancor più che etico o giuridico, perché denota la volontà o meno di discriminare tra colpevoli e innocenti.

Per cercare di comprendere la guerra, in definitiva, non è necessario scomodare alcun dio; si tratta, piuttosto, di restituire la capacità di giudizio agli uomini e alle donne, a partire da quelli che si trovano in prima linea. Non è molto, lo ammetto. E sono consapevole che pure in questo caso esistono i rischi di manipolazione della volontà popolare. Ma rappresenta comunque un tentativo di restituire dignità ai combattenti e di dare alle vittime della guerra un valore politico, che sappia andare oltre le commemorazioni e il riconoscimento postumo in un monumento ai caduti.

EPA/ATEF SAFADI



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