Rapito! La madre e il bambino

Bellocchio filma l’Italia prima e dopo il 1861, ritratto di un paese cupo e violento, senza aria ne’ sole, ne’ speranze ne’ progetti.

Flavio De Bernardinis

Rapito!, l’ultimo film di Marco Bellocchio, è ispirato alla storia vera di Edgardo Mortara, strappato nel 1858 alla religione ebraica e alla famiglia, all’età di sei anni, convertito d’ufficio al cattolicesimo dalla Chiesa di Pio IX, a cui rimarrà fedele anche dopo la caduta del potere temporale del papa.
Come era stato il suo film d’esordio, I pugni in tasca, 1965, Rapito!, 2023, è ancora un film incentrato sulla figura della Madre. Inserito a forza nel collegio cattolico, il piccolo Edgardo non subisce un vero e proprio trauma, perché la dimensione simbolica, e affettiva, della sua vita non è sostanzialmente cambiata. Da una Madre all’altra. Dalla Mamma ebrea a Santa Madre Chiesa.
Nella famiglia d’origine, i Mortara, ebrei bolognesi, la figura dominante è infatti la Madre (una splendida Barbara Ronchi), che difende i figli come una lupa i lupacchiotti, mentre il padre viene ripetutamente accusato, e si autoaccusa, di essere un debole e un inetto.

A Roma, il papa, Pio IX, è rappresentato da Bellocchio come un Bambino, certo molto potente, il cui unico scopo è difendere a spada tratta Santa Madre Chiesa, nelle cui braccia misericordiose tutti prima o poi saranno accolti, come viene detto sovente nel film.
Sotto le vesti della Madre, a casa, per sfuggire alle guardie pontificie, Edgardo si nasconde, così come farà sotto le vesti del papa, a Roma, giocando a nascondino. La Madre ebrea e il papa sono così personaggi a specchio, l’uno il doppio dell’altra, ed entrambi non hanno che uno scopo, rapire Edgardo e tenerlo per sé. Sotto la veste. Maternamente.
A differenza di Edgardo, Pio IX ebbe la possibilità di crescere, diventare adulto, nel 1848, quando aveva concesso la costituzione, assurgendo persino a “papa liberale”. Ma non ne ha avuto infine la forza, né il coraggio, ed è prontamente tornato sotto le vesti di Santa Madre Chiesa.

Come ricordò anche Paolo VI in una celebre omelia commemorativa, Pio IX, nella tradizione cattolica, è il papa devoto all’Immacolata, cioè alla Madre Santissima. Nel film lo vediamo sedere a pranzo con i suoi piccoli figli, ebrei rapiti, proprio nel giorno dell’Immacolata. Quando sale la Scala Santa, alla vigilia del 20 settembre, lo ascoltiamo recitare la giaculatoria del primo gradino, quella dedicata alla Vergine: Ti prego, Madre santa: / siano impresse nel mio cuore / le piaghe del tuo Figlio. In punto di morte, lo udiamo sospirare con l’ultimo fiato, Vergine Santa, a te faccio ritorno. Sempre in latino, la lingua madre.

Bellocchio filma Pio IX come il Bambino prediletto di Santa Madre Chiesa, crudele e capriccioso, devoto all’Immacolata e rappresentante supremo della Chiesa stessa, capricciosa e crudele. È certamente il doppio della Madre ebrea di Edgardo. Egli detiene sia il potere archetipico, quello mariano, femminile e ancestrale, sia il potere temporale, lo Stato pontificio, maschile e storico. A specchio, la madre di Edgardo fa della religione ebraica, quella dei Padri, una questione tutta e soltanto femminile, di dominio assolutamente materno, senza mediazioni, sul figlio. È l’unica che andando in visita al collegio/prigione, in cui il piccolo si è ormai ambientato, riesca a metterlo in crisi fino alle lacrime.

Il film racconta la lotta senza quartiere tra queste due figure, Papa e Madre (padre e madre?) per il possesso di Edgardo. Un Padre che vuol essere anche Madre, Pio IX il cattolico, e una Madre che esibisce il piglio autoritario del Padre, la donna ebrea tutta d’un pezzo. Il montaggio di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti, colloca infatti rigorosamente in parallelo rito ebraico e rito cattolico, istituendo così una esplicita relazione speculare tra le due dottrine monoteiste, che si contendono il possesso del ragazzo.

Una storia vera, ben oltre il limite del verosimile. Più Bellocchio mette in scena situazioni e dialoghi realmente avvenuti, e più sembra di assistere a una folle e impietosa allucinazione (è il suo lato Buñuel). E se rappresenta l’Ottocento, viene fuori un Melodramma cupo e violento (è il versante Visconti). Se mette i personaggi in relazione fra loro, allora taglia a fil di rasoio i rapporti umani e sociali (è l’aspetto Kubrick). Ponendosi di fronte alla fede religiosa come un laico sbalordito, osserva infine la Donna come una potenza irresistibile scaturita dalle Viscere della Terra (è il sigillo di Dreyer).

Ne viene fuori un film dinamitardo, anarchico, politicamente scorrettissimo, specialmente oggi, che ritrae non solo i personaggi, ma l’Italia stessa, prima e dopo l’Unità, come un paese di tenebre, senza luce né luci, dove il potere temporale dello Stato sabaudo si sostituisce a quello papale, senza tuttavia vantarne materni diritti, in una laicità tutta di facciata, pronta ad assolvere l’Inquisitore bolognese, autore materiale del rapimento di Edgardo, con la stessa motivazione con cui si difendevano i criminali nazisti: aveva solo obbedito a un ordine.

La figura della Madre, allora, rimane l’assoluta protagonista. Si articola lungo il film in una catena significante che rimanda spedita all’inconscio collettivo. Santa Madre Chiesa, certamente. E poi, la mamma ebrea che sul cadavere del figlioletto morto, in chiesa, nasconde i simboli della fede israelitica. Quindi, la domestica che battezza di nascosto Edgardo di sei mesi per salvarlo dal limbo, tanto che il giudice, al processo che segue, corregge un testimone che l’ha chiamata signorina: “Signora, deve dire Signora, ha un figlio”. E la Madre di Edgardo, che nel finale del film, uno dei più agghiaccianti della storia recente del cinema italiano, si congeda dal figlio rivendicando il proprio potere, unico e assoluto, sulla vita e sulla morte.

Solo in un’occasione, Edgardo vive l’eterna scissione borghese tra Storia e Natura, su cui si fonda questa idea di Civiltà, in modo apparentemente catartico. Al funerale di Pio IX, sul Ponte Sant’Angelo, quando Roma è ormai entrata a far parte del Regno d’Italia, per brevi attimi, cede alla spinta della folla furente, gridando che la salma del pontefice sia gettata in Tevere. Ma anche lì non è che riesca a impugnare davvero le chiavi di sé stesso, perché è soltanto posseduto, una volta ancora, da un’energia più potente di lui.

 

Leggi anche Anima persa: il nuovo Aldo Moro di Marco Bellocchio



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