Abolizione del reato di tortura: quando l’intelligenza storica tace, l’inciviltà avanza

La legge che vieta la tortura sarà ridiscussa in commissione Giustizia della Camera. Ripercorriamo l'opera di Beccaria per ricordare quanto lungo sia stato il cammino dei diritti.

Teresa Simeone

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia il podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?[1]
Una delle prime e più efficaci condanne della tortura è in quel testo, Dei delitti e delle pene, che ogni tanto bisognerebbe rileggere per ricordare quanto lungo e travagliato sia stato il cammino dei diritti. Messo all’Indice dei Libri proibiti per la distinzione, fondante il principio di laicità, tra peccato e reato, contiene analisi rivoluzionarie per l’epoca: in esso Cesare Beccaria avanza motivazioni, tutte lucidamente argomentate, per respingere la pratica crudele della tortura e per avviare un dibattito sull’abolizione della pena di morte. La prima è illegittima e inutile, perché è assurdo pensare che “il dolore diventi il crogiuolo della verità” e che quest’ultima si possa ottenere infliggendo sofferenze che spingono anche l’innocente, pur di sottrarvisi, a confessare ciò che non ha fatto. In tal senso finisce, anzi, per avere l’effetto opposto, dal momento che mette l’innocente in condizioni peggiori di un colpevole che, magari più forte, resiste al dolore, venendo dichiarato innocente, mentre l’innocente, più debole, può cedervi: “Io giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato.”

Non è improbabile, inoltre, che si torturi un reo perché gli si voglia far confessare altri cento delitti: “le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi esser reo, perché voglio che tu sii reo.
La forza delle idee illuministe ha cambiato il corso della storia e dei diritti. Grazie a quel clima vivace e progressista, molti sovrani, Maria Teresa d’Austria, Giuseppe II, Caterina di Russia, solo per citare i più noti, provarono a modificare le condizioni dei loro Stati. Federico II di Prussia, il re-filosofo, il Salomone del Nord, come lo definì Voltaire, fu il primo sovrano d’Europa ad abolire la tortura nel 1740. Il 30 novembre 1786, un altro sovrano illuminato, Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, granduca di Toscana, che poi sarebbe divenuto Leopoldo II del Sacro Romano Impero, emanava la Riforma della legislazione criminale con cui aboliva, primo sovrano in Europa, la pena di morte, sostituendola con i lavori pubblici a vita. Il nuovo Codice penale cancellava, contestualmente, la possibilità di ricorrere alla tortura.

Anche in questo caso l’opera di Beccaria, con lucidità, senza indulgere a intenti moralistici, ma senza dimenticare, altresì, come l’imputato debba essere sempre considerato persona, non cosa, si dimostra capace di individuare le criticità di pene considerate intoccabili, tanto da riuscire a provocare un moto delle coscienze che spinse quei sovrani ad avviare le misure per una società più giusta e civile. Ogni pena, infatti, scrive Beccaria riportando il pensiero di Montesquieu, che non derivi dall’assoluta necessità, è tirannica: certamente esiste la necessità di difendere la salute pubblica dalle usurpazioni particolari, ma “nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico.” È stata la necessità a costringere gli uomini a cederne, non in modo assoluto, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo.Tutto il di piú – chiarisce ancora – è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto”. Le pene che oltrepassano questo limite sono, perciò, ingiuste. “Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo?”

La pena capitale, inoltre, non raggiunge nemmeno il suo obiettivo di deterrenza, poiché è meno efficace di una pena che si protrae nel tempo, come l’ergastolo, né quello di giustizia, dal momento che colui che punisce il crimine più grave, cioè l’omicidio, si macchia esso stesso di tale reato. “Parmi un assurdo – afferma Beccaria – che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.”

La pena di morte, inoltre, viola il più importante dei diritti umani, il diritto alla vita. Essendo irreversibile non consente di rettificare eventuali errori giudiziari, rendendo impossibili correzioni e reintegrazioni.
La nostra Costituzione, all’articolo 27, ribadisce con forza il divieto di ogni forma di violenza sui carcerati: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.” Rimane aperta, in tal senso, la discussione sull’ergastolo ostativo (per cui nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia): non prevedendo per il reo, già condannato a vita, alcun beneficio o permesso premio per buona condotta, come accade invece per altri tipi di ergastolo, risulta inumana e contraria al principio rieducativo della pena che la nostra legge fondamentale prevede.

Dobbiamo molto all’Illuminismo: il dibattito sui diritti, sulle libertà individuali, sulla tolleranza religiosa, sulla laicità che ha trasformato l’Occidente rendendolo capace di dialogare sulle grandi questioni e di lasciarsene attraversare, contrastando irrigidimenti e liberando l’essere umano da superstizioni, paure, chiusure dogmatiche. Ovviamente, come accade per ogni prodotto umano, l’illuminismo non è esente da critiche: a parte quelle mosse alla potenza della ragione, perché considerata a torto illimitata, laddove è filosoficamente finita (Kant docet), si è sottolineata, per restare nel dibattito sui diritti, una formalità dei principi cui non ha corrisposto una sostanzialità nella loro applicazione, col risultato di rendere tali diritti una mera dichiarazione astratta che invece lascerebbe sul campo diseguaglianze e ingiustizie. E, ciononostante, la sua eredità resta in tante Costituzioni e Dichiarazioni.
Nello specifico dei trattamenti da riservare ai prigionieri, a parte gli atti internazionali contro trattamenti crudeli, inumani o degradanti – dalla Convenzione di Ginevra del 1949 per i prigionieri di guerra, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 – la Convenzione ONU, conclusa nel dicembre del 1984 a New York, poi ratificata nel 1988 dall’Italia, definisce l’obbligo per gli Stati aderenti di legiferare affinché «qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale».

Anche il nostro Paese, dopo un lungo e tormentato iter parlamentare, ha finalmente introdotto nel 2017 i reati di tortura e di istigazione alla tortura. Sembrava che niente potesse riportare l’orologio della storia ad una tale condizione di inciviltà giuridica, eppure FdI ha, nei giorni scorsi, presentato una proposta di legge che prevede di cancellare due articoli della legge, quelli fondamentali: il testo, che vede come prima firmataria Imma Vietri, sarà discusso in commissione Giustizia della Camera. Se passasse costituirebbe un grosso passo indietro sul tema dei diritti umani.
Come sostiene Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici, la verità è una conquista sempre provvisoria. Il rischio di entrare o di ritornare alla società chiusa sembrerebbe scongiurato: «Una volta che si sia cominciato a fondarsi sulla ragione, ad usare la nostra capacità di critica; una volta che si sia avvertito l’appello delle responsabilità personali e, con esso, anche la responsabilità di cooperare all’avanzamento della conoscenza, non possiamo più ritornare a uno stato di implicita sottomissione alla magia tribale. Per coloro che hanno assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza, il paradiso è perduto.”[2] Eppure, niente è mai acquisito per sempre. Il pericolo di ritornare al tribalismo è nei fatti. Inevitabile? Sta a noi impedire che lo sia.

La nostra ragione che non deve, come potrebbe, per comodità, viltà o ignavia, essere disattivata nella sua capacità critica e regolativa, ci invita a esercitare un’azione costante di controllo sui governanti, impedendo che essi possano volgersi verso tipologie autoritarie ed evitando che si creino le condizioni per aprire loro la porta. Non dobbiamo dimenticare che il funzionamento delle migliori istituzioni dipende dalle persone che “vi provvedono”, direttamente e indirettamente. “Le Istituzioni sono come fortezze: devono essere ben progettate e gestite[3]: il prezzo della libertà è un’eterna vigilanza. E vigilare è atto democratico, volontario, intellettualmente, politicamente ed eticamente necessario.

[1] I brani indicati sono tratti da Dei delitti e delle pene, cap. 2-16-28, e-text a cura di Claudio Paganelli. Tratto dalla edizione 1973 U. Mursia & C., a cura di Renato Fabietti, collana GUM Grande Universale Mursia, pag 24-

[2] Karl Raimund Popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it. di D. Antiseri, Armando, Roma 2003

[3] Karl Raimund Popper, Il razionalismo critico, a cura di Massimo Baldini, Armando Editore, pag. 35



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