Quando anche una serie tv può fare cultura: il caso “Shtisel”

“Shtisel”, la serie di successo mondiale che narra la vita di ogni giorno di una famiglia ebrea ultraortodossa di Gerusalemme, associa a qualità e originalità anche insospettabili valenze “culturali”, travalicando la mediocrità dei modelli dilaganti.  

Silvano Curcio

Ammetto di essere un cultore delle diverse espressioni di “ebraicità” presenti nella letteratura moderna e contemporanea: dai fratelli Singer a Canetti, fino a Grossman, Nevo, Oz, Potok, Roth, Yehoshua… Ammetto anche di essere un convinto “non spettatore” delle innumerevoli e seguitissime serie tv messe in onda dalle tante piattaforme di intrattenimento, sul cui livello usuale di qualità è doveroso stendere un velo.

Ciò premesso, non avrei mai immaginato di diventare un aficionado proprio di una serie tv. E proprio di una serie tv incentrata su una particolare rappresentazione di ebraicità contemporanea. Quella della famiglia “Shtisel”, da cui il nome stesso della serie.

Per chi non ha avuto ancora modo di imbattersi in Shtisel, può essere utile un brevissimo distillato.

La serie? Israeliana, tre stagioni, trentatre puntate. Dapprima trasmessa in madre patria a partire dal 2013. Poi dal 2018 distribuita in streaming su Netflix. Intercettata nel 2020 anche dal pubblico italiano chiuso in casa in piena pandemia. Recentissima apoteosi finale con la terza stagione online dallo scorso marzo.

Gli Shtisel? Numerosa e multiforme famiglia ebrea ultraortodossa haredi [1]. Di Gerusalemme, quartiere Geula. Tre Shtisel-chiave, rappresentanti tre diverse generazioni. Malka, l’anziana nonna-ex matriarca. Shulem, il padre-rabbino-patriarca. Akiva, il figlio più giovane e insicuro di Shulem. Attorno, numerosi personaggi fortemente connotati. Da Giti (figlia primogenita di Shulem) a Lippe, Ruchami e Zvi Arye (di lei rispettivamente marito, figlia e secondo di quattro fratelli). Da Elisheva a Libbi (prima fidanzata e moglie-cugina di Akiva). Ed ancora Nuchem, Hanina, Nechama, Tovi, Kaufman, Menukha, Shira, Aliza…

La vicenda? Semplicemente storie di vita ordinaria degli Shtisel e del mondo a cui appartengono.

Da questo sommario identikit, verrebbe da pensare che si è di fronte al solito cliché della saga familiare (abusatissimo motivo conduttore di numerose serie tv). Sia pur in un contesto intrigante: il mondo esoterico degli ebrei ultraortodossi di oggi. Sia pur in un’ambientazione fascinosa: la Gerusalemme di oggi, sospesa tra sacralità e laicità.

Un’ormai copiosa produzione di articoli, commenti e interventi ha puntato anche di recente l’attenzione su diversi aspetti caratterizzanti la serie [2]. Nella maggior parte dei casi intrattenendo sulle tante curiosità “esotiche” di facile presa degli Shtisel-haredim. Sulla loro “moda” uomo-donna (dai lunghi riccioli sulle guance-payot ai severi cappelloni neri-brandolino, fino alle mezze-parrucche-sheitel e alle tuniche polpaccio-collo a norma tzniut). O sulla loro “dieta” casalinga (dalle frugali omelette colazione-pranzo-cena ai sempre presenti cetriolini sottaceto, fino all’acqua “frizzante” bevuta e offerta a mo’ di aperitivo). In altri casi discettando superficialmente sugli stili di vita e sulle convinzioni della loro comunità. Sulle loro più radicate e diffuse avversioni (dalla tecnologia, alle arti figurative, fino al sionismo). Sulle loro più prevalenti occupazioni (dagli uomini che si dedicano allo studio indefesso dei testi sacri, alle donne che invece lavorano, mantengono e curano la famiglia). Sulle loro più tradizionali professioni (dai maestri-rabbi delle scuole religiose-yeshivah, ai consideratissimi sensali di matrimonio-shadchan). In altri casi, infine, vivisezionando gli aspetti più rilevanti della serie da un punto di vista meramente tecnico-televisivo. Dalla qualità (notevole) della scrittura, alla originalità della sceneggiatura. Dalla particolarità dei dialoghi (tutti rigorosamente in un misto di lingua ebraica-yiddish, con sottotitoli), alla compiutezza descrittiva dei diversi personaggi. Fino alle capacità interpretative degli attori (nessuno di estrazione ultraortodossa, diversamente dagli autori) [3].

A seconda di come la si guardi e la si interpreti, Shtisel è anche questo. Shtisel non è niente di questo. Shtisel è nonostante questo.

E allora, per cercare di far emergere ed interpretare quelle che forse sono le ragioni vere e invarianti del suo successo totalizzante (una vera e propria “Shtisel-mania” a livello nazionale e mondiale), occorre scavare un po’ più a fondo.

Analizzando, ad esempio, Shtisel innanzitutto come “meta-serie” che consapevolmente mette in scena tutto e il contrario di tutto sulla comunità ultraortodossa protagonista della storia. Dalla tormentata introspezione delle contraddizioni etiche e sociali, alla rappresentazione anche autoironica dei “tic” comportamentali indotti dal credo religioso. Dalla lotta giornaliera per resistere alle “tentazioni” della modernità consumistica, al dissidio tra le propensioni naturali e le ferree regole imposte di vita e di comportamento. Dall’antagonismo generazionale non più nascosto tra genitori e figli, al conflitto dirimente tra l’autoreferenziale identità comunitaria e l’identità laica nazionale.

In questo senso Shtisel rappresenta metaforicamente una sorta di “buco della serratura” da cui per la prima volta si può esplorare con rispetto e discrezione un mondo finora impenetrabile, a noi del tutto sconosciuto, da noi lontano anni luce. Un mondo dove certo non potremmo né vorremmo vivere, ma che esprime un’umanità a suo modo poetica e che esercita un’attrazione tale da spingerci a familiarizzare e solidarizzare empaticamente con le vicissitudini, gli amori, i lutti, le nascite, le aspirazioni, i successi, i dubbi, i passi falsi, i fallimenti, i disagi, le tensioni e le passioni dei protagonisti.

Elementi tutti, questi, che tali e quali fanno parte anche della nostra stessa esperienza di vita quotidiana, ma che in Shtisel sono vissuti, “gestiti” e metabolizzati con il filtro di convinzioni ideologiche, dettami familiari e sociali e modelli di approccio e comportamentali inconciliabilmente diversi dai nostri.

Dunque, un avamposto di osservazione insospettabile (è pur sempre una serie tv), che ci rapisce, che ci affascina “culturalmente”. Ecco è proprio la sua forse involontaria dimensione “culturale” che rende Shtisel una narrazione di fatto “universale”. Una rappresentazione sociologica e antropologica delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di una comunità rapportata al suo contesto evolutivo e alla sua contemporaneità storica. Una narrazione libera da qualsiasi forma di giudizio o pregiudizio politico sull’ultraortodossia ebraica [4]. Che non ritrae stereotipi caricaturali di fanatici religiosi ma esseri umani comuni con tutte le loro debolezze e contraddizioni. Attraverso cui noi “esterni” abbiamo modo e opportunità di comprendere “dall’interno” che la religione rappresenta la vita stessa di questa comunità e che la ritualità delle tradizioni e l’osservanza delle regole non sono dogmi fini a se stessi ma strumenti indispensabili per la conservazione della propria identità e per la manutenzione giornaliera di quei valori spirituali su cui essa si fonda.

In definitiva la fascinazione collettiva per Shtisel è forse la stessa che potremmo ancora oggi provare per un “Romanzo” di altri tempi: un transfert inconscio grazie al quale noi membri della società “liquida” baumaniana ci immedesimiamo con comprensione, tenerezza ed anche nostalgia in quei resti archeologici di società “solida” conservati, estemizzati e difesi strenuamente da una comunità aliena. Una comunità finora a noi mai svelata, opprimente ma al tempo stesso rassicurante, distante spazi e tempi siderali dal nostro mondo postmoderno.

E allora ammettiamolo pure: anche una serie tv può fare cultura. Shtisel, un piccolo-grande capolavoro!

 

NOTE

[1] La comunità Haredi rappresenta la corrente più conservatrice dell’ebraismo ortodosso che non è affatto un gruppo monolitico e omogeneo, ma contempla diversi altri gruppi principali, a loro volta divisi in varie sette talvolta in aperto antagonismo.

[2] Degni di nota sono i contributi di Marianna Tognini, Sì, ‘Shtisel’ è (ancora) una delle cose migliori che possiate vedere su Netflix, sulla rivista online “Rolling Stone” del 03.04.2021 e della puntata Shtisel della trasmissione di Rai Radio 3 “Uomini e profeti” del 24.04.2021 curata da Felice Cimatti.

[3] Nel cast della serie, oltre agli autori Ori Elon e Yehonatan Indursky, figurano attori israeliani di diversa estrazione ed esperienza: dal già affermato Dov Glickman (Shulem) ai neo affermati Michael Aloni (Akiva) e Shira Haas (Ruchami), a Hadas Yaron (Libbi), nota anche in Italia grazie al premio per la miglior interpretazione femminile alla 69a Mostra del cinema di Venezia (“La sposa promessa”, R. Burshtein, 2012).

[4] Diversamente da altre opere di qualità in cui, focalizzando l’attenzione su vicende reali o immaginate fortemente estremizzate, si esprime di fatto un guidizio esplicitamente o implicitamente di condanna sulle regole di vita delle comunità ebraiche ultraortodosse. È il caso del romanzo “Il mio nome è Asher Lev” (C. Potok, 1972), del film “La sposa promessa” (R. Burshtein, 2012) e della miniserie televisiva “Unorthodox” (A. Winger, A. Karolinski, 2020).

(credit foto Netflix)



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