Come finanziare un vero reddito di base e lo scenario italiano

Due estratti dal libro Reddito di base – Liberare il XXI secolo di Andrea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini e Rachele Serino.

Redazione

Premessa
di Daniele Nalbone
Nelle ultime settimane, su MicroMega e MicroMega+, abbiamo dato ampio spazio al tema del reddito di base e analizzato lo scenario italiano e il dibattito intorno al reddito di cittadinanza.
Abbiamo raccontato, con il contributo di Sandro Gobetti del Bin Italia, delle sperimentazioni in giro per il mondo:
Stati Uniti
Dal Brasile all’intero Sudamerica
Il reddito di base in Africa, da aiuto caritatevole a scintilla di sviluppo
Dai villaggi dell’India alle metropoli della Corea del Sud
Abbiamo intervistato il giuslavorista Enrico Alleva e ospitato diversi contributi sul tema (di Giuseppe Allegri, Teresa Simeone, Ylenia Sina, Filippo Poltronieri, Giorgio Cremaschi, Renato Fioretti).
Per continuare il dibattito, pubblichiamo due estratti del libro Reddito di base – Liberare il XXI secolo (Momo Edizioni) di Andrea Fumagalli, Sandro Gobetti, Cristina Morini e Rachele Serino in libreria dal 26 settembre e disponibile da subito presso l’editore:  “Finanziare il basic income” e “Il ritardo del welfare italiano pesa sulla vita delle persone”.
“Chi paga?” è infatti una delle questioni che viene posta da chi ha fatto del contrasto al reddito di cittadinanza – soprattutto nel caso italiano – uno dei perni della propria politica. Ebbene, il libro di Fumagalli, Gobetti, Morini e Serino risponde (in un modo diverso, che vedremo) anche a una simile domanda dal sapore quasi sempre provocatorio. Ed è questo il valore del libro “Reddito di base – Liberare il XXI secolo”: argomenta le critiche e porta proposte partendo da elementi, il più delle volte sperimentazioni, concrete. Il tutto, andando oltre. Facendo uscire “l’idea” del reddito di base dagli spazi stretti del dibattito politico. Superando il bollino dell’utopia impossibile. Perché “negli ultimi venti anni questa proposta ha lasciato gli ormeggi e si è avventurata per il mondo”.

Il libro evita – ed è una scelta felice – di affrontare direttamente la questione di come finanziare la misura e non propone stime su quanto potrebbe costare ma rimanda a all’ampia letteratura sul tema. Il motivo sta nel fatto che – semplicemente – le risorse economiche per finanziare un reddito di base incondizionato, “tale da poter favorire il diritto all’autodeterminazione della persona”, sono oggi del tutto reperibili: “Il Quantitative Easing destinato al mercato finanziario, i finanziamenti del Recovery Plan, gli interventi di Helicopter Money, hanno mostrato che non si tratta di incapacità finanziaria”. Il punto non è “se ci sono i soldi”, quanto piuttosto “un’equa distribuzione di tale ricchezza”.

Dall’introduzione. “Dopo venti anni dall’inizio del millennio, il reddito di base si può leggere in molti modi: dentro la sfera delle idee, ma anche attraverso i risultati. Insieme abbiamo cucito, tagliato, incollato, suggerito, ripreso, fantasticato, modificato e sintetizzato molte esperienze, conoscenze, storie, informazioni per provare a offrire una panoramica sufficiente, anche se non esaustiva. Insieme abbiamo voluto organizzare uno scenario entro cui darci dei punti di riferimento e condividerli. I primi venti anni li abbiamo conosciuti, ora prepariamoci a determinare i prossimi”.


Finanziare il basic income

Sono molte le ipotesi e gli studi su come finanziare un reddito di base ed è qui impossibile dare conto del ricco dibattito in merito[i]. Un reddito di base può essere finan­ziato con tasse di scopo, attraverso la tassazione genera­le o dividendi. Alcune tasse specifiche possono essere: sullo sfruttamento delle risorse naturali, un’imposta sul valore aggiunto, un’imposta sui consumi, sull’inquina­mento, sugli investimenti speculativi, tassazione delle transazioni finanziarie, una digital tax, sui grandi patri­moni oppure la riduzione del gettito fiscale destinato ad altre spese, come quelle militari, ecc.

Altre proposte seguono lo schema dell’Alaska finan­ziato da una parte delle royalties sulle forniture di petro­lio. Questo tipo di proposta, che sarebbe in sostanza un dividend, pone il tema se per finanziare un reddito di base sia necessario un effetto distributivo piuttosto che un ef­fetto redistributivo. In questo caso il reddito proviene da una risorsa «pubblica» piuttosto che dalle tasse pagate da una comunità. Oppure come nella proposta dell’euro-dividend di Philippe Van Parijs in cui un modesto reddito di base deve essere erogato a ogni residente dell’Unione europea, o nei paesi dell’eurozona, che può essere inte­grato con il reddito da lavoro, con il reddito da capitale o altre prestazioni sociali. Il livello può variare da paese a paese per seguire il costo della vita e può essere più basso per i giovani e più alto per gli adulti. Deve essere finan­ziato dall’imposta sul valore aggiunto. Un euro-dividend medio di 200 euro al mese per tutti i residenti, può preve­dere la tassazione dell’Iva armonizzata dell’UE a un tasso di circa il 20%, che ammonta a circa il 10% del Pil europeo (Van Parijs, 2013). Una proposta simile, almeno sul piano dei destinatari, è stata avanzata anche in relazione a un Quantitative easing for people[ii]: l’erogazione di denaro di­rettamente alle persone piuttosto, come avvenuto con il Quantitative easing durante la presidenza Draghi alla Banca Centrale Europea, che ha erogato miliardi di euro alle sole banche (Gagliarducci, 2020).

Tuttavia, per sostenere le numerose sperimentazioni nel mondo (che vedremo più avanti) le formule adottate sono state molte: attraverso bilanci nazionali, comuna­li, provinciali o regionali, dall’UNICEF, con l’impegno di organizzazioni non governative, attraverso l’uso del crowdfunding, da fondazioni filantropiche, ecc.

Vi sono poi altre proposte di finanziamento: attra­verso un’imposta delle rendite, sui movimenti del capi­tale speculativo come la Tobin Tax[iii] (Block, Manza, 2013) o attraverso la tassazione dei grandi profitti delle grandi imprese tecnologiche[iv], dal controllo sui Big Data[v], fino alla tassazione delle forme di inquinamento o estrazione dei beni della terra come la Carbon Tax o Carbon Divi­dend[vi]. Inoltre vi è la così detta imposta negativa sul red­dito (Negative Income Tax), un credito d’imposta unifor­me e rimborsabile, come proposto negli Stati Uniti dal premio Nobel Milton Friedman per «ri-regolare» il mo­dello di welfare del paese (Friedman, 1966). Si tratta di una sorta di rimborso fiscale accompagnato a un soste­gno, e chiunque guadagni più dell’importo stabilito paga le tasse. Friedman sostenne che la NIT avrebbe po­tuto aiutare gli individui fornendo loro direttamente del denaro (Friedman, 1962).

Malgrado le diverse opzioni di finanziamento, l’idea generale rimane però quella di un’imposta progressiva attraverso la fiscalità generale.

A conclusione possiamo dire che spesso si cade nel­l’errore di moltiplicare l’importo del reddito per il nu­mero della popolazione interessata, così da poter calco­lare l’ammontare dell’imposta necessaria a finanziarlo. Questo ragionamento rende quasi impraticabile la fatti­bilità del reddito di base. Il risultato sarebbe un evidente aumento della tassazione generalizzato. Si potrebbe obiettare che gran parte del costo del reddito di base sa­rebbe finanziato, ad esempio, grazie alle risorse pubbli­che già stanziate per i diversi aiuti statali delle politiche assistenziali, esenzioni fiscali o misure previdenziali inferiori all’importo del reddito. Facciamo un esempio: secondo uno studio canadese (PBO, 2018), per introdur­re un reddito di base nel paese, il costo annuale si aggire­rebbe intorno ai 73 miliardi di dollari, tuttavia se fossero eliminati tutti i sussidi al di sotto della soglia del reddito di base, si potrebbero già avere a disposizione 43 miliar­di di dollari. Dunque il costo, o meglio, il finanziamento da sostenere non sarebbe 73 miliardi, ma eventualmente 30 miliardi. Elaine Power, professore di salute pubblica presso la Queen’s University canadese, aggiunge che dai dati in loro possesso, un reddito di base potrebbe far ri­sparmiare al governo 28 miliardi di dollari per la spesa sanitaria che sono direttamente attribuibili alle condi­zioni di povertà di molti cittadini che si rivolgono alle strutture sanitarie. Inoltre, tenuto conto che anche i go­verni locali condivideranno l’onere dei costi, questo po­trebbe far risparmiare altri 20 miliardi di dollari al go­verno federale. Questo veloce esempio sta a significare che il costo del reddito non può essere calcolato solo sulle entrate generate da un aumento indiscriminato di nuove tasse o su un veloce calcolo matematico tra l’am­montare del reddito di base e il numero dei cittadini. Studi di fattibilità sono stati prodotti in numerosi paesi nel mondo individuando schemi e formule altamente praticabili. Infine, come ulteriore riflessione, al costo del reddito di base, va tolto l’alto costo che la povertà ge­nera in un paese. Perché il problema non è tanto quanto costa un reddito di base, ma quanto costa la povertà. Non a caso i paesi dove il sistema di welfare è più generoso e vi è un minor tasso di povertà, si genera un circolo virtuoso che alimenta tutta l’economia.

Il ritardo del welfare italiano pesa sulla vita delle persone

L’Italia, come è noto, ha avuto (e continua ad avere) un ritardo enorme in merito all’introduzione di misure di protezione sociale, e in particolare di un reddito mini­mo garantito, che almeno somigliasse a quello di molti altri paesi europei. L’introduzione, nel 2019, del cosid­detto «reddito di cittadinanza», ha rappresentato un tentativo di accorciare un po’ questa distanza.

Malgrado il nome dato alla misura, possiamo dire che si tratta di un mix tra un reddito di inclusione e un reddito di ultima istanza. Destinato a nuclei familiari in povertà, non è stato in grado, sino a ora, di coinvolgere la vasta platea di tutti coloro che ne avrebbero necessità e certo è piuttosto distante dall’innovativo dibattito internazio­nale sul reddito di base incondizionato. La riformulazio­ne del welfare si muove ancora molto lentamente e molte delle soluzioni individuate rimangono ancorate a schemi categoriali, quasi mai universali. Inoltre, non è stata ancora trovata una strategia redistributiva che ri­metta al centro la definizione di un nuovo contratto so­ciale. L’aumento del numero di persone che vivono in condizione di povertà è aggravato proprio dalla man­canza di un welfare dei cittadini, di un sostegno universa­le, in grado di rispondere anche a quella grande trasfor­mazione del mercato del lavoro sempre più precarizzato che tiene fuori milioni di persone dai diritti più elemen­tari (Gobetti, Santini, 2016). Tutto ciò, com’è noto, è ac­compagnato da un peggioramento dei salari che hanno subito una brusca frenata negli ultimi anni[vii].

Questi «buchi neri» del sistema del welfare e del mer­cato del lavoro italiano sono tra le maggiori cause dell’au­mento della platea degli esclusi, anche tra coloro che sono già al lavoro (Saraceno, 2015). In Italia la «protezione so­ciale» dai rischi economici è stata spesso delegata al nu­cleo familiare allargato, che ha cercato, tra mille sforzi, di garantire una sorta di redistribuzione intra-familiare, come ultima e unica istanza a cui aggrapparsi. Le giovani generazioni precarie sono sostenute dalle persone più an­ziane che «grazie» alla pensione ricevono un’entrata fissa (che funziona come un reddito garantito)[viii]. E così in que­sta epoca (che possiamo definire «della precarietà della vita come sentimento comune») si determina un circolo vizioso nuovo: i nonni sostengono i figli che sostengono i nipoti. Questo processo ha alimentato la platea delle nuove povertà (Gobetti, 2011) determinando una sorta di precarizzazione sociale diffusa che coinvolge ormai diverse generazioni precarie (BIN Italia, 2018), smentendo defini­tivamente la narrazione della precarietà come condizione temporanea che riguarda solo una piccola parte della vita (per lo più giovanile). Se volessimo concentrarci proprio sulla condizione giovanile, e dei minori in generale, sco­priremo che, a confronto con gli anziani, i giovani risulta­no essere più poveri (Castigli, 2019). È quel «reddito ga­rantito» dalle pensioni (e dal risparmio familiare) a fare la differenza e che sostiene spesso anche coloro che nella stessa famiglia vivono condizioni di difficoltà economica. Nel 2012, in Italia, il 15,9% dei bambini e degli adolescenti viveva in una condizione di povertà relativa e di questi il 13,3% viveva in una condizione di grave deprivazione ma­teriale (UNICEF, 2012). L’anno successivo, il Rapporto sul benessere equo e sostenibile, ricorda che «in Italia la povertà e la deprivazione dei minori sono i più elevati in Europa e mostrano una tendenza al peggioramento» (ISTAT, CNEL, 2013). Nel 2019 l’Atlante dell’infanzia riportava un aumento della povertà tra i minori di tre volte in soli 10 anni (Save The Children, 2019), e nel 2020, i dati hanno se­gnalato un ulteriore peggioramento: i giovani tra i 15 e i 29 anni che si trovano in difficoltà economica, hanno rag­giunto la cifra di 1 milione e 140mila (Save the Children, 2020) e, nel 2021 arrivano ad 1 milione e 346mila.

La condizione di insicurezza sociale ed economica, di precarizzazione sociale, attraversa ormai diverse genera­zioni, e oltre il disagio economico, coinvolge la dimen­sione culturale, sociale, alimentare, la partecipazione civica, ecc. Si tratta di una condizione multidimensiona­le e multigenerazionale che mostra il peso del ritardo italiano nel non aver realizzato uno schema di welfare universale (BIN Italia, 2018). Come sarà possibile, in un futuro molto prossimo, che venga garantita quella redi­stribuzione intra-familiare, che oggi sostiene, a fatica, tutto ciò? Chi svolgerà la funzione di «sostegno» quando gli attuali giovani e meno giovani, in particolare lavora­tori precari, disoccupati di lunga data, working poor o la­voratori in nero avranno raggiunto l’età matura o della pensione, senza aver avuto modo di risparmiare o senza i contributi necessari alla pensione? Si potrebbe verifi­care un aumento esponenziale delle persone in povertà che potrebbe raggiungere percentuali drammatiche, te­nuto conto anche dell’aggravamento economico e so­ciale causato dalla pandemia da Covid19[ix].

L’ampiezza e la diversità della precarizzazione sociale, intesa appunto come mancanza di garanzie certe (di un alloggio, di reddito, lavoro, possibilità di cura, ecc.), non coinvolge più solo specifici territori e non più solamente le classiche figure della marginalità e assume ormai un carattere generalizzato e strutturale. La domanda si pone con ancora maggior forza: «come rinnovare, da­vanti alla deregolamentazione e allo sfilacciarsi della società del lavoro, il diritto fondamentale di godere dei diritti fondamentali della modernità?» (Beck, 2000).

Sempre più persone si trovano ai margini della socie­tà, a causa di biografie lavorative ed esistenziali fram­mentate, diventano «apolidi sociali», denizens, cioè cit­tadini senza diritti di cittadinanza, non cittadini, con l’esclusione sociale amplificata dagli effetti delle crisi economico-finanziarie, sanitarie, del lavoro, e dalle fal­limentari risposte che sono state date dalle classi politi­che dirigenti (Standing, 2014). Oggi una parte importan­te dei denizens sono quei gruppi che hanno perso diritti nel loro stesso paese. E sono denizens anche tutti coloro che sono privi di diritti sociali, che vivono al di sotto della soglia di povertà, che non hanno alcun entitlement alle indennità statali, sia per mancanza di adeguate misure o per i tagli dei fondi destinati alle protezioni sociali. Questi cittadini senza diritti di cittadinanza, rappresentano una cittadinanza sospesa, soprattutto nel vecchio continen­te, tra inadeguatezza dei sistemi sociali nazionali, gover­nance europea, poteri poco trasparenti delle grandi cor­porations del capitalismo finanziario e istituzioni econo­miche e politiche spesso inadeguate (Allegri, Ciccarelli, 2014). Il tema di una redistribuzione delle ricchezze, di un nuovo patto sociale, dell’introduzione di forme di ga­ranzia del reddito più universali e meno condizionate, è così urgente che il dibattito politico e l’iniziativa sociale, dovrebbe individuarlo come una delle maggiori priorità di questa epoca. Di fatto la garanzia di un reddito desti­nato alle persone, è ormai un tema che non si può più na­scondere.


[i] Tra i tanti segnaliamo: A. Fumagalli, Intelligence precaria (2010), San Precario Milano, Bin-Italia (2012), Gentilini, Grosh, Rigolini, Yemtsov (2020a); Sommer, (2016); PBO (2018); Lansley, Reed (2019); Standing (2017); Arcarons, Raventos, Torrens, (2014), Colombino (2015 – 2015a), Van Parijs, Vanderborght (2017).

[ii] Per approfondire visitare il sito www.positivemoney.eu, oppure Bertorello, Marazzi (2016).

[iii] Prende il nome del premio Nobel per l’economia James Tobin. Si tratta di una tassa sulle transazioni sui mercati valutari penalizzando le speculazioni e procurando entrate da destinare alla comunità inter­nazionale.

[iv] Amazon, con una capitalizzazione di oltre 1.500 miliardi di dollari, ha pagato solo 169 milioni di dollari di tasse negli Stati Uniti per il 2019. Nel Regno Unito, 8 milioni di dollari su un fatturato di oltre 17,5 miliardi (Bergin, 2020), in Francia 250 milioni di euro di tasse per un fatturato di 4,5 miliardi di euro, in Spagna, circa 4,4 milioni contro un fatturato di 490 milioni di euro (Fernandez, 2019). In Italia, solo 11 mi­lioni di euro di tasse a fronte di un fatturato di 4,5 miliardi di dollari (Pitozzi, 2020) e tutte insieme Google, Amazon, Facebook, Apple, Airbnb, Uber e Booking hanno pagato 42 milioni di euro al fisco nel 2019 (Livini, 2020). Solo 6.000 euro la somma lasciata alle tasse ita­liane dalla piattaforma di streaming TV Netflix (FQ, 2020).

[v] Sul sito Data Dividend (www.datadividendproject.com) è possibile approfondire una delle proposte in campo negli Stati Uniti per tassare i Big Data. Mentre, secondo una stima di Weyl e Posner, contenuta in «Radical Markets», attraverso la tassazione dei profitti sui Big Data, una famiglia media di quattro persone «guadagnerebbe» 20.000 dol­lari l’anno (Gobetti, Santini, 2019).

[vi] In Corea del Sud questa proposta è parte del dibattito istituzionale, mentre in Europa, nel 2020, ha preso vita una campagna di raccolta firme per portare la proposta al Parlamento europeo.

[vii] «Dal 2000 al 2017 gli stipendi dei dipendenti italiani sono aumentati in media soltanto di 400 euro all’anno, mentre nello stesso periodo in Germania si è registrata una crescita media di 5mila euro annui e in Francia la crescita media dei salari ha raggiunto i 6mila euro» (Morelli, 2019). «Fatto 100 il potere di acquisto medio a New York, l’indice del potere di acquisto locale in Italia è 77,5 quello in Francia 91,5 e quello in Germania 116,2» (Ricciardi, 2020).

[viii] «Per quasi 7 milioni e 400mila famiglie, circa una su tre, le pensioni rappresentano il primo reddito. La crisi del reddito e del salario, la vera questione politica oggi, è arrivata a questo punto: davanti alla casualità assoluta dei guadagni delle generazioni nate dopo il 1970, quelle pre­cedenti suppliscono in maniera quasi totale alla vita di una popola­zione composta da poveri e da lavoratori poveri, giovani e meno giovani. Questo dato rivela che la solidarietà familiare ha sostituito il patto intergenerazionale sulla quale è fondata la previdenza. La fami­glia è stata trasformata in una rete di ultima istanza. È una supplenza alla mancanza di un welfare universale che tutela il diritto di esistenza, un principio che dovrebbe essere fondativo di uno stato costituzionale di diritto. Non solo l’anziano permette al più giovane di sostenersi, ma un pensionato su tre è anche povero. Il 36,3%, riceve ogni mese meno di mille euro lordi, il 12,2% non supera i 500 euro» (Ciccarelli, 2020).

[ix] «Secondo il rapporto Caritas 2020 la pandemia ha messo in ginoc­chio in Italia i giovani e le famiglie senza più lavoro. Boom di richieste di sostegni al reddito, prese in carico oltre 450mila persone, una su due ha chiesto aiuto per la prima volta. Ecco l’identikit della nuova po­vertà: colpisce donne, minori, partite Iva e precari. Il caos del welfare nell’emergenza: il “paradosso” dei bonus categoriali che moltiplicano gli esclusi. Il “reddito di cittadinanza” va riformato in senso univer­salistico e senza condizioni» (Ciccarelli, 2020a).



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