Referendum Giustizia, Tescaroli: “Campagna politica contro i magistrati”

Il procuratore aggiunto di Firenze intervistato da MicroMega entra nel dettaglio dei quesiti ammessi dalla Corte costituzionale: “Oggi i pm sono indicati come i responsabili di ogni male della giustizia”. Colpendoli “si mettono a rischio le garanzie collettive”.

Daniele Nalbone

Niente referendum sull’eutanasia. Niente referendum sulla cannabis. Alla fine, la stagione referendaria tanto annunciata non ci sarà. Difficile immaginare un’affluenza alle urne consistente per decidere sui cinque quesiti ammessi (su sei) riguardanti la giustizia. E se dei referendum “più sentiti” dalla società civile, come li ha definiti il professor Gaetano Azzariti, si è parlato molto, dei referendum sulla giustizia si è discusso più in termini politici che non giuridici. Come ha spiegato Domenico Gallo in questa analisi, “malgrado abbiano perso una delle frecce più insidiose nel loro arco (quello relativo alla responsabilità civile dei magistrati), i promotori dei sei referendum sulla cd. “giustizia giusta” hanno esultato accompagnati da un robusto coro mediatico, farneticando che attraverso i referendum avrebbero introdotto una riforma opportuna e necessaria del sistema giustizia”.

Per analizzare gli impatti che i cinque quesiti potrebbero avere sul sistema giustizia, abbiamo intervistato Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze.

Le chiedo subito un giudizio in merito alle decisioni della Corte costituzionale.
La Corte ha esercitato le proprie prerogative e le regole della democrazia impongono il rispetto delle decisioni prese. Non sono solito spingermi in valutazioni politiche. Personalmente, mi auguro che il Parlamento intervenga in tempo utile per assicurare riforme che siano ragionate, meditate, equilibrate sui temi che coinvolgono la giustizia in una stagione in cui continua a essere portata avanti una campagna di stampa di delegittimazione come mai era accaduto in passato. Nel mirino c’è ormai il pm, indicato come il responsabile di ogni male della giustizia.

Entrando nel merito dei quesiti, cosa la preoccupa maggiormente?
Il quesito sulla separazione delle funzioni, delle carriere, mi fa riflettere. Chi fa parte della mia generazione non può dimenticare il Piano di rinascita democratica di Licio Gelli ritrovato durante una perquisizione, nel marzo del 1981, nella villa di Castiglion Fibocchi di Licio Gelli. Tra gli obiettivi del Piano, c’era proprio quello della separazione delle carriere. Da un lato “gli inquirenti”, dall’altra “i giudicanti”. Se questo referendum dovesse essere approvato, potrebbero innescarsi dinamiche estremamente pericolose e il timore è che delle campagne stampa mirate possano alimentare la necessità di questa separazione con il celato obiettivo di sottoporre i pm al potere politico. Il sistema vigente già prevede per il passaggio da pm a giudice una serie di paletti ben chiari, limiti, condizioni precise. Inoltre, devo constatare come questo problema non è che sia così pressante, e lo dico basandomi su dati oggettivi: tra il giugno 2016 e il giugno 2019 i trasferimenti “da inquirenti a giudicanti” sono stati solo ottanta. In direzione opposta appena 41. Parliamo di percentuali ridicole, 1.7 percento dei pm che “passa” a giudice, lo 0.2% che compie il tragitto inverso. Nei fatti, questa separazione già c’è.

Quindi stiamo parlando di un non problema?
Diciamo che se l’obiettivo di queste polemiche è alimentare il sospetto che il giudice non sia sereno davanti a un collega pm, il rischio è arrivare a conseguenze estreme. Non basterebbe separare le carriere ma giungere addirittura, faccio un esempio, alla separazione tra giudici di Appello e giudici di Cassazione.

Ma questa separazione avrebbe qualcosa di positivo?
Io mi limito a registrare come nei Paesi stranieri in cui vige la separazione delle carriere ci sia una vera e propria dipendenza del pm dal potere esecutivo del governo in carica. Ed è una conseguenza quasi automatica. Solo in Portogallo possiamo dire che la separazione delle carriere non abbia portato a inquadrare l’ufficio del pm sotto l’esecutivo, sul piano formale. Reputo quindi singolare che in Italia si voglia, oggi, creare un netto iato tra le funzioni quando le parti più evolute della comunità internazionale vanno in direzione opposta.

Rivestire entrambi i ruoli in una carriera cosa comporta?
A mio avviso è un valore aggiunto nell’interesse, in primis, dei cittadini. Inoltre, è un arricchimento del magistrato in termini culturali. Abbiamo avuto casi di magistrati valorosi – che non ci sono più – eliminati dalle frange più agguerrite della criminalità del nostro Paese, penso ad Antonino Saetta, Rosario Livatino, ovviamente a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

E i rischi di una separazione delle carriere?
Il rischio principale è che venga creato un corpo di magistrati che si muoverà solo in tono accusatorio, come una proiezione della polizia giudiziaria. E questo andrebbe solo a detrimento delle garanzie del cittadino. Vogliamo davvero che i pm diventino il braccio armato della compagine governativa? Oggi il pm svolge una doppia funzione, di “ricerca” nelle fasi di indagine e di “tutela” verso il cittadino al momento, sempre per fare un esempio, dell’acquisizione delle prove. È obbligato a vagliare anche gli elementi a favore degli indagati.

Siamo quindi al cospetto di un referendum prettamente politico? Eppure, si parla di “riforma della giustizia”.
Quella in corso ha le sembianze di una campagna politica volta a non informare correttamente i cittadini ma proiettata unicamente a solleticare gli istinti di rivalsa contro i magistrati.

C’è poi il quesito relativo alle misure cautelari…
Di fatto se passasse questo quesito, le misure cautelari si applicherebbero solo qualora per l’indagato, pur raggiunto da gravi indizi di colpevolezza e pur presente il rischio di reiterazione del reato, non sussista il concreto pericolo di fuga e di inquinamento delle prove. Di fatto, le misure cautelari diventerebbero inapplicabili al di fuori di una stretta cerchia di reati, come la criminalità organizzata, l’eversione, l’uso della violenza o delle armi. Niente custodia detentiva, quindi, per autori di gravi reati, anche seriali, contro la pubblica amministrazione, contro l’economia, contro il patrimonio, la libertà personale o sessuale delle persone. Truffatori seriali, bancarottieri e via dicendo sarebbero quindi liberi fino a condanna definitiva, e sconterebbero una pena detentiva solo qualora le condanne supereranno la soglia dei quattro anni di carcere.

Conseguenza?
Una palese caduta nella tutela delle garanzie collettive di sicurezza che, in un contesto sociale come quello italiano, sono forse la cosa più importante. Inoltre, il rischio è che dovendo – e sottolineo dovendo – ottemperare a una simile normativa, non potendo applicare la misura cautelare degli indagati pur colti in flagranza di reati che destano allarmi sociali, siano proprio i magistrati a finire travolti da una tempesta di rancore, per non dire di odio, da parte dell’opinione pubblica. Per la gente, saremmo noi i responsabili di “liberazioni” che mettono a repentaglio le persone offese, e la collettività.

 CREDIT FOTO: ANSA/MATTEO CORNER



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