Referendum giustizia: ora tocca a noi (seconda parte)

È con la consapevolezza delle possibili (nefaste) conseguenze di un successo dei “sì” che ciascuno di noi deve apprestarsi a operare le proprie scelte.

Renato Fioretti

Abbiamo già avuto modo di analizzare in queste pagine i primi quesiti referendari sulla giustizia ammessi dalla Corte Costituzionale. Qui qualche considerazione sui rimanenti due quesiti che, non esito a dirlo, trovo, addirittura, sconcertanti. Li considero tali perché ritengo confermino – urbi et orbi – la mal celata insofferenza dell’attuale ceto politico nei confronti della legalità!

Il primo mira ad abrogare parte delle disposizioni relative alla c.d. “custodia cautelare”. Un provvedimento attraverso il quale, in sintesi, un giudice[1] stabilisce che un indagato – o, anche, una persona condannata in via non definitiva – resti in carcere[2] nel corso delle indagini o prima che si definisca la sentenza a suo carico. Il ricorso a tale misura è dettato: a) dal pericolo di inquinamento delle prove, b) dal rischio di fuga dell’indagato e c) dal pericolo di reiterazione del reato.

Al riguardo, quale premessa, non va taciuto che, in effetti, nel nostro Paese il ricorso alle misure di custodia cautelare presenta indici abbastanza elevati[3], però, è altrettanto vero che porre rimedio a questi ingiustificati e intollerabili eccessi, che costituiscono un vero e proprio “abuso di potere”, tocca solo ed esclusivamente al Legislatore.

È, quindi, sconvolgente che, dietro la maschera rappresentata dalla «esigenza di porre dei limiti agli abusi prodotti dall’esercizio della custodia cautelare», si celi, invece, l’intenzione da parte dei promotori di intervenire non rispetto ai possibili abusi, bensì per operare una drastica riduzione del campo di applicazione della norma.

Non a caso, in realtà, il quesito si pone l’obiettivo di abrogare una sola parte di quanto previsto dalla legge[4], cioè il solo «pericolo di reiterazione del reato» (art. 274, comma 1, lettera c, del Dpr 22 settembre 1988, n. 447); a meno che non si tratti di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata.

Votare “sì” a questo quesito significherà, quindi, produrre un effetto deflagrante: impedire al giudice di turno di poter ricorrere alle misure cautelari per una lunga serie di reati; anche molto gravi.

Come rileva Domenico Gallo: «Esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, l’effetto del “sì”  sarebbe quello di precludere la possibilità di applicare, nei confronti delle persone imputate di gravi reati, misure cautelari di alcun tipo, non solo la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, ma anche l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge o padre violento), oppure il divieto di avvicinamento (nei casi di atti persecutori) così come non sarebbero più possibili le misure interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali (nel caso delle società finanziarie che truffano gli investitori)». In definitiva, conclude Gallo: «Smantellando gli strumenti di contrasto alla criminalità, non si opera una riforma della giustizia, bensì una riforma contro l’amministrazione della giustizia, contro l’eguaglianza e i diritti delle persone»!

E hanno l’ardire di parlare di referendum tesi ad ottenere «una giustizia giusta»!

Come non condividere, quindi, le considerazioni di Giancarlo Caselli quando scrive che Matteo Salvini, nel farsi promotore di questo quesito referendario (al pari di quello sulla legge Severino), «è scivolato su una buccia di banana»? «Se questo referendum dovesse essere approvato», scrive Caselli, «alla prima decisione giudiziaria di un certo rilievo che applichi le nuove disposizioni farà seguito – c’è da scommetterlo, sicuri di vincere facile – un’ondata di malcontento e l’indignazione popolare contro questa magistratura troppo lassista (l’intramontabile “polizia arresta, giudici scarcerano”). Magari proprio da parte di quelli che si sono intestati il referendum». Con ulteriore pregiudizio di immagine e credibilità a danno dei magistrati.

Cosa farebbe, a quel punto, l’incoerente Matteo Salvini? Avrebbe ancora la spudoratezza di andare in giro a suonare al citofono di pusher e scippatori?

Un tragicomico effetto – se fosse possibile dimenticare il drammatico affresco che documenta lo stato della penosa condizione della politica italiana – dovrebbe essere costituito da una valanga di risate sotto la quale sommergere l’antico slogan leghista: «Roma ladrona» e l’ultimo suo condottiero; co-presentatore e tenace sostenitore dei quesiti referendari.

L’ultimo quesito, teso all’abrogazione della legge che prevede l’incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive per i politici che abbiano subito una condanna che superi i due anni (la c.d. “legge Severino”) prima ancora che sconcertante, lo definirei vergognoso e offensivo! Vergognoso, per una casta politica che considero (ormai) alla deriva e, contemporaneamente, offensivo, perché lesivo della dignità e dell’intelligenza dell’intero popolo italiano!

Considero infatti offensivo che si rinvii alla volontà popolare la decisione di abrogare una norma di legge al solo scopo di consentire, anche a chi sia stato condannato in via definitiva per delitti non colposi, di poter ricoprire incarichi di governo e/o di candidarsi alle elezioni.

In sostanza, tanto per chiarire ancora meglio il concetto: chiedere agli elettori di esprimersi a favore dell’abrogazione del Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, significherebbe – in caso di affermazione del “sì” – poter sostenere, senza tema di smentite, che siano stati gli italiani a chiedere di voler essere rappresentati (nei Consigli comunali come al Parlamento europeo) da condannati in via definitiva per reati di mafia, terrorismo, corruzione e qualsiasi altro grave reato!

Proprio un altro grande merito e motivo di orgoglio nazionale!

È dunque questo è il micidiale rischio che, tutti insieme, abbiamo il dovere morale e civile di evitare.

Tra l’altro, la clamorosa conferma della maschera dietro la quale i promotori e i sostenitori di questo quesito tentano di nascondere il loro vergognoso obiettivo è rappresentata dal ricorso a una motivazione “di comodo”[5].

La cancellazione della Severino viene, infatti, presentata quale necessità d’impedire che sindaci e amministratori locali possano essere sospesi dalla carica anche se condannati con sentenza non definitiva (come oggi previsto dall’art. 11 del 235/2012) salvo ritrovarsi, successivamente, assolti da ogni accusa.

Si tratta, in realtà, di una vergognosa e falsa motivazione, dettata, evidentemente, dalla speranza che siano in tanti a lasciarsi abbindolare dallo strumentale slogan della c.d. “giustizia giusta” e tralascino anche di leggere il quesito.

Sarebbe infatti sufficiente leggerlo per rendersi perfettamente conto che esso non riguarda solo la cancellazione di quanto previsto all’art. 11, bensì l’abrogazione dell’intera disciplina.

«Adesso la casta trema», titolava qualche settimana fa il quotidiano Libero. Concordo, piuttosto, con Domenico Gallo, secondo il quale «in realtà i magistrati non hanno nulla da temere, sono i cittadini che devono cominciare a preoccuparsi»!

È, quindi, con la consapevolezza di quelle che potrebbero essere le possibili (nefaste) conseguenze di un successo dei “sì” che, credo, ciascuno di noi debba apprestarsi a operare le proprie scelte.

[1] La custodia cautelare viene disposta dal gip, su richiesta del pm, o dal giudice presso il quale pende il giudizio.

[2] Oppure agli arresti domiciliari. Altre possibili misure cautelari sono rappresentate, ad esempio, dall’allontanamento dalla casa familiare e dal divieto di avvicinamento ai luoghi di persona offesa.

[3] Il sito HuffPost riporta dati secondo i quali il 13-14% dei detenuti è costituito da soggetti in attesa della sentenza di primo grado. Nel 2020, ad esempio, sono state risarciti, per ingiusta detenzione 750 soggetti.

[4] E, di conseguenza, non rendere più possibile l’applicazione di alcuna misura cautelare nei confronti dell’indagato o del condannato.

[5] Trattasi di una rappresentazione cui sono già ricorsi non pochi politici ed altrettanti giornalisti “di parte”.



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