Referendum giustizia, separare le carriere per delegittimare i pm?

Una lettura politica dei referendum sulla giustizia a partire dal quesito relativo alla divisione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante.

Leonardo Palmisano

Mentre è difficile leggere, anche per chi ha una laurea in legge, i quesiti referendari, è abbastanza agevole, quando non scontato, leggerli politicamente. Alcuni quesiti più di altri. Uno su tutti quello riguardante la separazione delle carriere. Ora, ai più non sarà sfuggita la differenza di compiti tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, differenza che a volte contiene un approccio culturale diverso che necessita di essere integrato proprio grazie al passaggio produttivo, collaborativo quindi non corporativo, da una funzione all’altra.

Quello che sfugge davvero è, invece, che dietro quest’idea delle separazioni delle carriere si cela un disegno volto a delegittimare, di fatto, il lavoro e i compiti dei pubblici ministeri e ad intasare il lavoro della magistratura giudicante, chiamata a valutare il lavoro dei Pm, quindi a influire sulla loro carriera, non solo a verificare la necessità del processo. Questo effetto di personalizzazione coatta della scelta e della valutazione delle carriere non aiuta la magistratura nel suo insieme, perché sospinge al personalismo alla base delle carriere e può condurre a forme inedite di nuovo corporativismo. In definitiva, non è con la separazione delle carriere che si neutralizza il corporativismo, ma con l’acquisizione reciproca, da parte di inquirenti e giudicanti, della cultura dell’altro, degli elementi distintivi delle due professioni. Ed infatti è più facile, quindi più veloce, giudicare se si ha cognizione della tecnica investigativo-accusatoria.

Così come si riesce a valutare meglio il calibro di un reato se si è passati da una posizione giudicante. L’ammorbidimento per la custodia cautelare, contenuto in un altro quesito, è una concessione fatta a chi commette reati di peso, perché non tutela la vittima dalla reiterazione del reato, sottoponendola, di fatto, a forme acute di insicurezza da minaccia non esercitata fisicamente.

Questo, nei casi estremi, può favorire membri di raffinate organizzazioni criminali, alimentando una profonda sfiducia istituzionale in alcune aree del paese. Questo quesito pare rispondere a un’esigenza di tutela riguardosa verso chi reiteratamente può danneggiare l’economia pubblica e privata. Sembra quasi la legittimazione referendaria di una condizione di fatto, una tolleranza verso fenomeni corruttivi sempre più spesso connessi alle mafie e alla loro ricchezza. Tolleranza aggravata dallo stato di crisi economica e politica del paese. La lettura più realistica, insomma, è quella di una fila di quesiti scritti male, difficilmente leggibili per l’italiano medio, tendenti a scaricare emotivamente solo sulla magistratura italiana annose ed irrisolte questioni di equilibrio tra i poteri.

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