Se il relativismo culturale entra nei tribunali

A pochi giorni dalla Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, la Procura di Perugia archivia la denuncia di una donna marocchina contro il marito adducendo ragioni culturali.

Cinzia Sciuto

Nel 2007 una sentenza del tribunale tedesco di Bückeburg concesse le “attenuanti etnico-culturali” a un uomo di ventinove anni che aveva segregato per tre settimane, torturato e violentato l’ex fidanzata. Nell’incredibile sentenza si legge: “Si deve tenere conto del particolare retroterra culturale ed etnico dell’imputato. Il ruolo dell’uomo e della donna nella sua cultura non può certo valere come scusante [bontà loro] ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante”.

L’uomo in questione era sardo, e all’epoca la sentenza fece scandalo in Italia, e in Sardegna in particolare, perché considerata espressione di una visione assolutamente stereotipata e arcaica della cultura sarda. Ma il punto scandaloso di quella sentenza non è quello contingente – non è vero che la cultura sarda è quella cosa lì – ma quello normativo: anche se la cultura sarda fosse quella cosa lì, sarebbe inaccettabile utilizzare cultura, tradizioni, religioni, se non proprio per giustificare, di certo per minimizzare e relativizzare la violenza contro le donne.

Pochi giorni fa la procura di Perugia ha archiviato la denuncia di Salsabila Mouhib, una donna marocchina, che subiva violenze dal marito e che da quest’ultimo era costretta, quando raramente usciva di casa, a indossare il niqab, il velo integrale che lascia una fessura solo all’altezza degli occhi. Fra le altre motivazioni nella richiesta di archiviazione della procura si legge anche che «la condotta di costringerla a tenere il velo integrale rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati» (corsivo mio). Ma la condotta di costringere una donna a indossare il velo integrale non è inaccettabile in ottica occidentale, ma nell’ottica dello Stato di diritto e dei diritti umani universali. Il fatto poi che evidentemente per la donna in questione quel “quadro culturale” rappresentasse una forma di violenza e non vi si riconoscesse, è per gli inquirenti completamente secondario. La giustizia, insomma, ridotta a strumento di difesa e perpetuazione di “usi e costumi”, e pazienza se questi “usi e costumi” violano i diritti umani fondamentali.

Se siamo potuti arrivare a questo punto la responsabilità è anche di un forsennato relativismo culturale, ahimè diffuso anche a sinistra, che riduce proprio lo Stato di diritto e dei diritti umani universali a mere espressioni storiche e contingenti della “cultura occidentale”. Compiendo una tragica fallacia logica: il fatto storico che i diritti umani e lo Stato di diritto siano nati e si siano sviluppati in Occidente (posto che sia proprio così) non sposta di una virgola il loro valore universale. Che non significa – altra fallacia logica – che vanno “esportati” con qualunque mezzo in tutto il mondo ma che sono – come qualunque conquista dello spirito – a disposizione dell’intera umanità. Se i diritti umani sono “occidentali”, per cosa si stanno battendo in ogni angolo del pianeta coloro che rischiano la propria vita ogni giorno per rivendicare libertà di espressione, libertà di religione, diritti civili e politici? Stanno forse rischiando la loro vita per valori “occidentali”?

Le culture – tutte le culture – sono strutture complesse, in continua evoluzione e soprattutto internamente contraddittorie: se è vero che la cultura occidentale è la culla dei diritti umani, essa è anche la culla dei totalitarismi. La scelta dei valori per cui vale la pena battersi non è una scelta culturale, ma etica e politica. Lo specifico contesto culturale in cui, per puro caso, ciascuno di noi nasce, non rappresenta un destino già scritto ma l’ambito contingente con cui ciascuno di noi si trova a confrontarsi e nel quale compie le proprie scelte.

Questo tragico relativismo culturale nel quale siamo immersi ci sta lentamente ma inesorabilmente conducendo verso un pluralismo giuridico di fatto, per il quale la legge non è uguale per tutti ma dipende dal retroterra culturale ed etnico (e chissà, prima o poi anche sociale) delle persone. E se la legge non è più uguale per tutti, a pagarne le conseguenze sono come sempre, prime fra tutte, le donne.

 

(credit foto EPA/YAHYA ARHAB)



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