La resistenza non è un’opinione

Invasione e resistenza non possono mai essere messi sullo stesso piano perché la conquista è una scelta, la difesa una necessità.

Fabio Armao

La resistenza – si legge sul Dizionario di Politica – implica l’idea di difesa, di opposizione: all’invasore, al regime totalitario. Ma esiste, va aggiunto, soltanto nel momento in cui si trasforma in pratica, in un’azione che comporta la messa a repentaglio della propria stessa vita. Un soldato di un esercito aggressore può “accontentarsi” di obbedire agli ordini dei superiori, seppure rimanga sempre nei suoi margini di discrezionalità rifiutarsi di combattere qualora ritenga che la guerra sia ingiusta o il comando illecito o, all’estremo opposto, rendersi egli stesso responsabile di crimini: infierendo sui civili, sulle donne, sui bambini. Un combattente di un movimento di resistenza, quanto più si trova in una condizione di inferiorità (numerica e tecnologica), tanto più deve credere alla giustizia della propria causa. Per il semplice fatto che ha la possibilità di compiere una scelta molto meno gravosa, almeno nell’immediato, ovvero non ingaggiare guerra con il nemico. Invasione e resistenza non possono mai essere messi sullo stesso piano perché la conquista è una scelta, la difesa una necessità.

Gli ucraini che si ostinano a difendere il proprio paese dall’invasione russa meriterebbero, già solo per questo, quantomeno rispetto. Al contrario, alcuni nostri commentatori – per parafrasare un verso di una vecchia canzone di Enzo Jannacci, “quelli che non vogliono tornare dalla Russia e continuano a fingersi pacifisti, oh yeh” – sembrano pensare invece che chi resiste e chiede l’invio di nuove armi non sia altro che un (in)utile idiota, succube della propria ignoranza, incapace di una scelta consapevole e razionale (in realtà, talvolta, tutti fuorché sé stessi non hanno capito nulla, perché lo stesso Putin, in fin dei conti, sarebbe abboccato nella trappola tesagli dal presidente americano Biden). Paradossalmente, la resistenza viene criticata anche quando assume una forma non violenta e dallo straordinario valore simbolico. Mi riferisco alla scelta del Papa di far portare la croce a due donne, una russa e una ucraina, durante la cerimonia della Via Crucis: persino tra gli stessi ecclesiastici, evidentemente incapaci di cogliere in quel gesto un tentativo di impedire almeno che una già devastante guerra di conquista possa evolvere in guerra tra popoli, la si è contestata giudicandola politicamente poco opportuna.

Certo, potremmo cavarcela osservando come occorra più coerenza e determinazione per opporsi a un esercito aggressore che per sfoderare i propri argomenti retorici in uno studio televisivo; o per esibirsi in sterili esercizi di equilibrismo intellettuale, come fare dei distinguo sulla maggior giustificabilità della lotta partigiana al nazifascismo in Italia tra il 1943 e il 1945 rispetto a quella odierna in Ucraina. E, tuttavia, non è sufficiente: un dibattito ridotto a sterili polemiche ideologiche (anche depurato dai deliri narcisistici di alcuni protagonisti) impedisce di cogliere il carattere ineluttabile e tragico di una scelta come la resistenza a un nemico soverchiante; e trasmette l’idea che il sacrificio dei milioni di uomini e donne morti per la liberazione del proprio paese – nell’Africa dei processi di decolonizzazione, nel Vietnam occupato dai francesi e dagli statunitensi, nell’Afghanistan invaso dai sovietici, non meno che nell’Europa in lotta contro nazismo e fascismo – sia stato inutile e che tutti loro abbiano frainteso la causa per la quale combattevano, o si siano fatti manipolare dai propri leader.

La guerra, ce l’ha insegnato due secoli or sono il generale prussiano von Clausewitz, è uno strumento della politica che, sola, ne determina lo scopo, la logica. È la politica a servirsene nel tentativo di abbattere l’avversario, di costringerlo a sottomettersi alla propria volontà. Il livello della violenza espresso in guerra dipende dalle pretese politiche implicite nel conflitto. Le macerie e le fosse comuni che costellano oggi l’Ucraina non lasciano molti dubbi sulle intenzioni di Putin e dei suoi volonterosi generali (a quanto pare, del tutto disinteressati a pretendere dalle proprie truppe alcun rispetto del diritto bellico): se avessero davvero voluto liberare gli ucraini, perché sterminarli e radere al suolo le loro città? Quella di Putin, per evocare di nuovo Clausewitz, è una guerra assoluta, che tende all’estremo e che può essere mitigata soltanto introducendo degli “attriti” che ne rallentino la marcia – e la resistenza rimane, temo, il principale elemento di frizione a disposizione dei difensori. (Detto per inciso, credo che i caduti della “grande guerra patriottica”, a differenza di alcuni nostri filosofi, ironizzerebbero sulla pretesa del leader russo di spacciare la sua come guerra di liberazione del Donbass dai nazisti ucraini e che i martiri dell’assedio di Stalingrado non gradirebbero di essere commemorati sulle rovine di Mariupol.)

La determinazione con la quale gli ucraini continuano a opporsi all’invasione russa, oltre a confermare una volta di più l’interpretazione clausewitziana della guerra, rappresenta una prova evidente della maggior legittimità politica della loro causa rispetto a quella perorata da Putin. Per quanto sia straziante affermarlo, negare loro la possibilità di continuare a combattere vuol dire privarli di un diritto di resistenza che hanno già dimostrato di voler e saper rivendicare. Se non avesse soldati e civili disposti a imbracciarle, Zelensky avrebbe già smesso da tempo di invocare l’invio di nuove armi.

Fare affermazioni del genere non vuol dire essere militaristi, bensì soltanto cercare di comprendere gli eventi bellici e di distinguere le forze in campo, ritenendo che questa sia una precondizione indispensabile per privare i contendenti di qualunque alibi e per attribuire a ciascuno di loro le rispettive responsabilità politiche (e, se del caso, criminali) nello scatenamento e nella conduzione della guerra. Prestarsi a fare da portavoce delle opposte propagande non è mai la soluzione migliore. Allo stesso modo, non serve mettere sullo stesso piano democrazie e autoritarismi, attribuendo alle prime un “concorso di colpa” nelle violenze dei secondi; non è sufficiente, anzi è fuorviante, affermare che le armi provocano la guerra. Le armi non vivono di vita propria: sono il frutto di investimenti da parte dello stato, della ricerca e delle economie di scala del capitalismo, hanno bisogno di soldati in grado di usarle, addestrati per uccidere. La guerra è politica e cultura, ed economia. Non saremo in grado di arginarne la diffusione fino a quando non impareremo a concepire strumenti alternativi per risolvere i conflitti che ne sono alla base.

Non c’è dubbio che le democrazie siano meglio attrezzate di qualunque altro regime politico, sulla carta, per farsi interpreti di un pacifismo istituzionale, giuridico e sociale – per dirla alla Bobbio. Per riuscire a prevalere sulle autocrazie, tuttavia, non possono sempre e soltanto aspettare di trovarsi costrette a confrontarsi con esse sul piano della mera forza (magari dopo aver flirtato e fatto affari per decenni con i dittatori che le governano), contando sul fatto che la storia ha finora sancito la loro superiorità in guerra. E invece di continuare ad accontentarsi di declamare i propri valori, devono cominciare a praticarli, a partire dall’inclusione sociale e dalla redistribuzione delle risorse.

Tocca alle democrazie per prime ripensare i rapporti tra stato e mercato, riscrivere il patto con quel capitalismo che ha accompagnato lo sviluppo dei sistemi liberal-democratici, imponendogli un cambio di paradigma. E non certo invocando ragioni etiche (del tutto estrinseche alle logiche di mercato), ma facendo appello all’utilità reciproca, alla necessità ormai improrogabile di lottare entrambi – democrazia e capitalismo – per la propria stessa sopravvivenza: una società mondiale dell’uno per cento, infatti, è destinata a insterilirsi fino all’esaurimento e a garantirsi un futuro di crescenti e dilaganti rivolte sociali. Nutrire e curare l’umanità, come pure salvare il pianeta, oltre a essere già slogan di successo nel marketing sociale, potrebbero davvero rivelarsi ottimi investimenti, nel medio e lungo periodo. E, nel breve, ci eviterebbero di finire tutti morti.

 

(credit foto © Daniel Ceng Shou-Yi/ZUMA Press Wire)



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