Ricordare Piersanti Mattarella, vittima degli intrecci tra mafia e politica

Non si può commemorare l'uccisione di Piersanti Mattarella, avvenuta il 6 gennaio 1980, ignorando l’intreccio di rapporti tra mafia e politica che ne è alla radice. Questa omissione costituirebbe una legittimazione di fatto di tali connessioni. Ne va della buona salute della nostra democrazia".

Gian Carlo Caselli

Il 6 gennaio 1980 veniva ucciso a Palermo, in un agguato di stampo mafioso, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Un democristiano onesto che voleva “bonificare” il suo partito e la Regione e che con Cosa nostra non voleva convivere né farci affari. Numerose le commosse rievocazioni del tragico fatto, ma viziate da un limite: ignorare l’intreccio di rapporti tra mafia e politica determinando di fatto una legittimazione di tali rapporti (non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro).
Una legittimazione estremamente pericolosa per la buona salute della nostra democrazia. L’ennesima declinazione del tentativo (in gran parte riuscito) di far passare una rilettura surreale e improponibile in chiave di “riduzionismo/negazionismo” dei rapporti mafia-politica. Tali rapporti sarebbero in pratica inventati da indagini creative e quindi inquinate. La mafia rimarrebbe un fenomeno localistico, articolatosi quasi soltanto sul terreno degli appalti pubblici per motivazioni di tipo meramente economico, addebitabili agli appetiti di singoli esponenti del ceto politico-amministrativo. Una “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale.
Per contro, la lettura degli atti e delle sentenze dei processi politici (Andreotti e Dell’Utri in particolare) non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica, ma i tempi – appunto – della storia nazionale: spesso con i connotati di una tragedia incombente, che sembra quasi destinata a ripetersi ciclicamente, anche con cadenze di morte.
L’esempio che dimostra nel modo più evidente la mistificazione della versione “riduzionista/negazionista” è appunto l’omicidio di Piersanti Mattarella.
Esso assume i contorni di uno psicodramma dell’intera classe dirigente nazionale, che appare la vera protagonista e destinataria della tragica vicenda, rivestendo tutte le parti del dramma: quella di chi vorrebbe riformare la politica; quella di chi vuol continuare a ingrassare nelle collusioni con la mafia; quella pavida o corrotta di chi si rassegna all’impotenza. Una vicenda che potrebbe anche definirsi come un catalizzatore storico del rapporto mafia-politica, perché ne racchiude ed esalta tutti i connotati storici, le “invarianti strutturali” dall’Unità ai nostri giorni.
Sotto questo profilo, essa si ricongiunge – in una inquietante linea di continuità – al primo omicidio politico-mafioso di rilievo nazionale della storia unitaria: quello di Emanuele Notarbartolo, che portò alla luce, proiettandolo sullo scenario nazionale, il rapporto mafia-politica come elemento strutturale del fenomeno mafioso e come asse portante degli equilibri politici nazionali per la sua dimensione macropolitica (così come del resto era stato individuato, già subito dopo l’unificazione nazionale, da Leopoldo Franchetti nella sua famosa inchiesta sulla mafia in Sicilia).
L’omicidio Mattarella è un capitolo importante del processo Andreotti. Al dispositivo che parla di reato “commesso” fino alla primavera 1980, possiamo aggiungere una paginetta – una sola delle circa 1.500 complessive – della motivazione della sentenza della Corte di appello di Palermo (definitivamente confermata in Cassazione), dove si esplicita come sia “concretamente ravvisabile” a carico dell’imputato “il reato di partecipazione alla associazione per delinquere”, per avere, “non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale [Cosa nostra] e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo”, dando “segni autentici – e non meramente fittizi – di amichevole disponibilità, […] inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”.
Tra le prove decisive figurano due incontri in Sicilia del senatore Andreotti (accompagnato da Salvo Lima e dai cugini Antonino e Ignazio Salvo) con Stefano Bontate e altri mafiosi di rango, come Salvatore (Totuccio) Inzerillo. Ricordiamo che Bontate era al vertice di Cosa nostra negli anni Settanta; insieme a Luciano Leggio e Gaetano Badalamenti fece poi parte del “triumvirato” incaricato di riorganizzare l’associazione criminale. Era tra coloro che fecero entrare Cosa nostra nel business del traffico internazionale di droga. Fu ucciso nel 1981 da due sicari agli ordini di Riina. Inzerillo, invece, era parente del mafioso Rosario Spatola e cugino del boss Carlo Gambino, capo dell’omonima famiglia mafiosa di Brooklyn. Ancora giovanissimo, fu affiliato nella famiglia palermitana di Passo di Rigano, di cui divenne capo nel 1978, venendo nominato anche capo-mandamento. Inzerillo instaurò ottimi rapporti personali e d’affari con Bontate, con cui gestì un ingente traffico di eroina verso gli Stati Uniti, in collegamento con i cugini Gambino.
Come è del tutto evidente, i mafiosi incontrati da Andreotti non erano di certo figure secondarie. Nei due incontri si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella: il primo doveva servire a risolvere “amichevolmente” la questione; nel secondo Andreotti volle chiedere conto dell’omicidio e ricevette da Bontate una risposta sprezzante. La sentenza sottolinea che l’imputato avrebbe potuto offrire (in dipendenza dei due incontri) utilissimi elementi di conoscenza in ordine all’omicidio Mattarella, ma non ha mai denunziato le responsabilità dei mafiosi.
Da segnalare che l’accusa, in origine fondata sull’ineccepibile testimonianza (in uno dei due incontri addirittura oculare) di Francesco Marino Mannoia, ha poi trovato un’eccezionale conferma grazie a un’operazione del luglio 2019 della Polizia di Palermo e dell’Fbi, che ha smantellato una cosca ricostruita dagli “scappati” della famiglia Inzerillo, rientrati a Palermo. In una intercettazione ambientale del 17 gennaio 2019, uno degli arrestati, Tommaso Inzerillo, racconta quel che aveva appreso dal cugino Salvatore Inzerillo a proposito delle gesta di Stefano Bontate. In particolare ricorda la timpulata (ceffone, schiaffone) di Bontate a un politico (“a Roma comandi tu, qua a Palermo comandiamo noialtri”), che con tutta evidenza coincide sostanzialmente con quanto Mannoia ha riferito sull’incontro avvenuto nella primavera del 1980 con Bontate e Inzerillo, quando Andreotti volle chiedere conto dell’omicidio Mattarella. L’intercettazione, eseguita dalla Squadra mobile di Palermo, è riportata da Salvo Palazzolo in un articolo dal titolo “Bontate disse al politico: non comandi”, pubblicato nell’edizione di Palermo di la Repubblica il 21 luglio 2019[1].
[1] Le considerazioni svolte in questo articolo sono sviluppate nel volume Lo stato illegale di Caselli-Lo Forte, Laterza 2020.

Nella foto: l’onorevole Piersanti Mattarella in un’immagine del 9 febbraio 1978. ANSA



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