La Terza Repubblica di Meloni nel Paese degli allineati

"Il premierato è la madre di tutte le riforme", sostiene Giorgia Meloni in seguito all’approvazione in Consiglio dei Ministri all’unanimità e senza alcuna modifica al testo presentato. Sarà fiero anche Mario Draghi? Ora aspettiamo il via alla prossima riforma di salviniano afflato, l’Autonomia Differenziata.

Rossella Guadagnini

Il premierato è stato approvato il 3 novembre in Consiglio dei Ministri all’unanimità e senza alcuna modifica del testo. “È la madre di tutte le riforme” ha spiegato la premier Giorgia Meloni”, ribadendo che – così come è accaduto per l’approvazione della finanziaria lei è “molto fiera di questa riforma, confido in un consenso ampio in Parlamento, altrimenti chiederemo agli italiani, con il referendum”. Perciò non ci resta che sperare nel referendum.
Perché – mentre si combattono due guerre, che forse sono anche una sola guerra (Putin è sempre l’unico a guadagnarci finora, oltre ai signori della guerra) – da cui la presidente del Consiglio non si è fatta distrarre come tutti noi, trafitti da immagini atroci che documentano la ferocia umana dell’una e dell’altra parte, né per nulla turbare emotivamente, al punto da non aderire – astenendosi – alla richiesta dell’Onu sul cessate il fuoco tra i due contendenti – mentre si è persa per strada la prima carrettata di miliardi del Pnrr, tanto faticosamente conquistata, quanto subito facilmente svanita all’orizzonte, per incapacità manifesta di trarne qualsivoglia beneficio per il Paese – lei va avanti come un carro armato che punta il suo vero obiettivo.
La presunta modernizzazione della sua Nazione (Dio, Patria e Famiglia), che parte proprio dal cambiamento di alcuni punti cardine della Costituzione, mentre lo Stato italiano intanto (laico, degli expat, con famiglia divise o allargate) affoga in un’eterna crisi economica, col debito pubblico che cresce, i tassi che aumentano, l’inflazione che galoppa, le spese assurde per gli armamenti che, tutto sommato a ben vedere, si potrebbero anche sostenere grazie ai tagli alla sanità e alla scuola pubbliche. Meglio crescere piccoli ignoranti, che sostenere vecchi malati. E poi sa di contrappasso di dantesca memoria offrire armi per ammazzare civili e soldati in terra straniera, piuttosto che sfamare e curare poveracci di ogni nazionalità, che entrano nei nostri confini come naufraghi all’arrembaggio.

E chissà che anche questo progetto meloniano non piaccia – tanto quanto ha apprezzato la sua manovra economica – pure a Mario Draghi, nostro ex presidente del Consiglio con l’ambizione non così remota di presiedere magari questa Terza Repubblica nuova di zecca. Un Paese non di futuri ciuchini, il nostro, come quello delle meraviglie, ma di presenti allineati. Allineati a tutto. Come ci piace l’adeguamento! Alle politiche propositive della destra, agli alleati sempre vincitori, ai leader affermativi, chiunque essi siano: da Renzi a Orban, da Lepen a Draghi. Vengono a proposito in mente le indicazioni della banca d’affari statunitense J.P. Morgan che nel 2013 – esattamente 10 anni fa – espresse il suo giudizio sulle costituzioni di alcuni stati europei, bollate come “troppo socialiste”. Un’infamia evidentemente da correggere al più presto. C’è voluto appena un decennio.
Esaminando il cammino dell’Europa verso la sua ristrutturazione, infatti, un team di sei analisti formato da David Mackie, Malcom Barr, Marco Protopapa, Alex White, Greg Fuzesi e Raphael Brun-Aguerre – fece un’inattesa disanima delle costituzioni dei paesi periferici e del loro ruolo [1]. “Nei primi momenti della crisi – scrissero – si è pensato che i problemi nazionali ereditati dal passato fossero in gran parte economici: debiti eccessivi di stato, aziende e famiglie, disallineamenti dei cambi reali interni, rigidità strutturali. Ma, nel tempo, è diventato chiaro che ci sono anche problemi politici ereditati dal passato. Le costituzioni e le strutture politiche della periferia meridionale, messa in piedi dopo la caduta del fascismo, hanno numerosi aspetti che sembrano essere inadeguati all’ulteriore integrazione dell’area”.
Ne venne fuori che nei “paesi periferici” “… le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica goduta dai partiti di sinistra, dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici della periferia tipicamente mostrano diversi dei seguenti aspetti: deboli esecutivi, deboli stati centrali rispetto alle regioni, protezione costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi di costruzione del consenso che alimentano il clientelismo politico, e il diritto a protestare se sono realizzati cambiamenti politici allo status quo non apprezzati. I paesi alla periferia sono stati solo parzialmente capaci di realizzare riforme economiche e fiscali, con i governi vincolati dalle costituzioni (Portogallo), da potenti regioni (Spagna), e dall’emergere di partiti populisti (Italia e Grecia)”. Noi, dunque, siamo un paese vincolato dalla nostra Carta che è evidentemente un impedimento allo sviluppo futuro e del futuro. Così è tutto più chiaro. Levando di mezzo “i lacci e lacciuoli” costituzionali il nostro luminoso domani, è proprio lì a un passo, a portata di mano. Ma quale mano?

“Noi – ha proseguito Meloni – abbiamo fatto quel che dovevamo fare, mettiamo gli italiani davanti a una grande rivoluzione, che ci porta nella Terza Repubblica”, ha detto la premier in conferenza stampa, spiegando che per lei si tratta della “madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia”. E Dio ce ne scampi, che ora è in arrivo la doppietta scoppiettante di Salvini col ddl Calderoli sull’Autonomia Differenziata, che sparerà a morte al Sud dell’Italia per farne una qualsivoglia poltiglia.
“La riforma che introduce l’elezione diretta del premier – precisa Meloni -garantisce due grandi obiettivi: il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo fine al gioco dei ribaltoni, ai giochi di palazzo o ai governi arcobaleno e tecnici, governi passati sulla testa dei cittadini per decidere cose che i cittadini non avevano chiesto”. Perché a lei avevamo forse chiesto presidenzialismo e autonomia differenziata? Non invece lavoro e occupazione, aumento dei salari e delle politiche giovanili e per le donne, incrementi nella sanità e ritorno del welfare, la possibilità di portare di nuovo l’Italia al centro dell’Europa, libertà di stampa e di espressione?
La riforma poi, secondo Meloni, “consente che chi governa – come lei medesima – possa governare con un orizzonte di legislatura, dunque abbia 5 anni per realizzare un progetto e dare stabilità, una condizione sostanziale per garantire strategia e guadagnare credibilità”, anche a livello “internazionale”. “Non sta me ricordare – aggiunge – che in 75 anni di storia repubblicana abbiamo avuto 78 governi, con una vita media di un anno e mezzo”. Vuole dunque poter governare stabilmente. E chi non lo vuole?

A detta della premier “tutti i politici italiani sono peggiori di quelli francesi e tedeschi” dove c’è maggiore stabilità di governo “oppure qualcosa non ha funzionato nel sistema. Quello che non ha funzionato è l’orizzonte di legislatura: quando è limitato si tende a privilegiare quello che torna in termini di consenso” in tempi brevi “piuttosto che una strategia” di lungo periodo. “L’assenza di stabilità crea problemi di credibilità a livello internazionale nella continuità dei nostri progetti e della nostra interlocuzione. Quando si ha un orizzonte di legislatura breve, un orizzonte di un anno e mezzo” questo “produce una debolezza strutturale della politica”.
“Credo che questa riforma sia fondamentale e lo dico anche a quelli che dicono che questo è un governo stabile e non è una priorità. Invece lo è proprio perché questo è un governo stabile e forte e noi abbiamo la responsabilità di cogliere questa occasione e porci il problema di quello che accadrà dopo e di risolvere i problemi strutturali della nazione”. Ed inoltre “se non fossimo il governo politico che siamo non avremmo la responsabilità di realizzare il nostro programma e noi vogliamo realizzarlo”.
Nella riforma costituzionale “viene prevista una norma antiribaltone”, per cui il presidente del Consiglio eletto “può essere sostituito da un parlamentare della maggioranza solo per realizzare le dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio eletto. Può accadere una sola volta: fine dei Governi tecnici, dei ribaltoni, delle maggioranze arcobaleno”. La riforma prevede poi “l’abolizione dei senatori a vita” ad eccezione degli ex Presidenti della Repubblica e di quelli in carica. Una decisione, ha spiegato la premier, in linea con la riduzione del numero dei parlamentari. “Il ruolo del Presidente della Repubblica viene considerato di assoluta garanzia, abbiamo deciso di non toccare le competenze del Presidente della Repubblica, salvo l’incarico del presidente del Consiglio, che viene scelto dai cittadini”.

[1] Il Sole 24 ore, 12 giugno 2013, Troppo socialismo, JPMorgan boccia le costituzioni europee, di Riccardo Sorrentino.

Foto edoardo baraldi | Flickr



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