Riformare il CSM va bene ma il vero problema è la politica

La riforma va nella direzione giusta. Il governo trova un compromesso relativamente alto su una questione fortemente ideologizzata.

Mauro Barberis

In Italia, la giustizia è sempre stato un nervo scoperto, più che in qualsiasi altro paese dell’Occidente. Storicamente, la magistratura è sempre stata percepita come una casta, organica al potere politico: com’è stata durante il fascismo, che peraltro i giuristi sono riusciti a temperare. Neppure i Costituenti, dando applicazione al principio della separazione dei poteri, hanno parlato della magistratura come di un «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»: senza osare chiamarlo con il suo vero nome, che è potere giudiziario, il terzo dello Stato dopo legislativo ed esecutivo. Per garantirne l’autonomia, gli stessi Costituenti hanno istituito un organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura, evitando di sottoporre i pubblici ministeri al controllo del Ministro della Giustizia, come in altri paesi.

Anche per questo la cosiddetta Prima Repubblica è finita con Tangentopoli, innescata da inchieste sulla corruzione politica come Mani Pulite. Il problema è però che da allora, in Italia, la giustizia non è più stata solo un problema di efficienza, trasparenza e tutela dei diritti, come nel resto dell’Occidente, ma un derby quotidiano fra garantisti e giustizialisti – espressioni, anche queste, tipicamente italiane – che ha toccato i suoi apici sotto il berlusconismo. Un format, alimentato dall’informazione, di cui la recente, livorosa polemica fra Renzi e i suoi inquirenti fiorentini è solo l’ultima replica.

È su questa contesa, che spacca da trent’anni la politica e l’informazione italiana, che interviene la riforma Cartabia, di cui ieri il Consiglio dei ministri ha approvato la terza tranche, sul CSM e l’ordinamento giudiziario. I primi due provvedimenti, sulla giustizia penale e civile, ci erano stati richiesti dall’Europa, come si dice, per rimediare alla durata abnorme dei nostri processi, oltreché per portare a casa i fondi del PNRR. Problemi, detto per inciso, molto più importanti del conflitto fra politica e magistratura, anche se i comuni cittadini se ne accorgono solo quando hanno la sfortuna di inciampare in problemi legali.

La riforma del CSM e dell’ordinamento giudiziario approvata ieri, invece, suscita maggiore interesse dell’informazione – anche se basta una battuta di Draghi contro i partiti per oscurarla – solo perché interviene nel derby di cui sopra. L’intervento, d’altra parte, s’era fatto improrogabile per molte ragioni: lo scandalo Palamara aveva rivelato le degenerazioni correntizie del CSM, deprecate nel suo discorso di insediamento anche da Sergio Mattarella, che costituzionalmente ne è il Presidente; a luglio l’attuale CSM scade, sicché occorreva intervenire rapidamente su composizione e sistema elettorale; soprattutto, incombono i referendum radicali sulla giustizia, immediatamente cavalcati dal garantismo peloso del centrodestra, referendum sull’ammissibilità dei quali la Corte costituzionale si pronuncerà, con qualche imbarazzo, già martedì.

A una prima occhiata, la riforma va nella direzione giusta, eliminando i casi più clamorosi di passaggi dalla magistratura alla politica, e ritorno, e correggendo il sistema elettorale del CSM, fra l’altro in una direzione opposta a quella preferita dagli stessi magistrati, che avrebbero preferito il proporzionale, come gli attuali parlamentari e forse per le stesse ragioni. Soprattutto, il governo Draghi, superando le esitazioni del periodo della corsa al Quirinale, all’unanimità dei suoi ministri e promettendo di non porre la questione di fiducia, quindi confidando nella ragionevolezza dei partiti che lo appoggiano, e che ora sono chiamati a dire la parola definitiva sul provvedimento, fa d’autorità quello che, nella vituperata Prima Repubblica, faceva il Parlamento: ossia trova un compromesso relativamente alto su una questione fortemente ideologizzata.

Che il vero problema italiano non sia la magistratura né i suoi ambigui rapporti con la politica – talvolta di connivenza, talaltra di scontro – mi sembra però dimostrato già dai protagonisti di tutta questa vicenda. Lasciamo pure stare il Presidente della Repubblica, organo di garanzia che, per fortuna, conserva una legittimazione democratica indiretta – altro che semi presidenzialismo, formale, o di fatto – ma che è tenuto da un costituzionalista, come Mattarella, con una lunga carriera parlamentare. Pensate però a tutti gli altri protagonisti. Né le corti europee che hanno condannato l’Italia per la durata dei nostri processi, né i promotori dei referendum sulla giustizia ma anche sul fine-vita, questione che il Parlamento non è mai riuscito ad affrontare seriamente, né la Ministra della Giustizia Cartabia, altra costituzionalista estranea alla politica, né, meno che mai, il Presidente Draghi, ormai apertamente insofferente contro i partiti, sono politici eletti. Il nostro problema principale, insomma, non sono i rapporti fra giustizia e politica, che in una democrazia liberale e pluralista devono essere tempestosi. Il vero problema è l’assenza della politica.

 

(credit foto EPA/ROBERTO MONALDO / POOL)



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