Riforme costituzionali, il problema è il Parlamento

Capo dello Stato eletto dal popolo, autonomia differenziata: questi sono i veri obiettivi delle riforme costituzionali perseguite dalla destra. Ma proponendo il rafforzamento dell’esecutivo si attenta all’unico potere che funzioni in Italia – il Presidente della Repubblica – e si abbandona al proprio destino il Parlamento, il ventre molle della costituzione.

Mauro Barberis

Ci sono almeno tre paradossi nella ripresa, da parte dell’attuale governo, del tormentone delle riforme costituzionali. Primo paradosso: i Duemila sono punteggiati da proposte di riforma, ma l’unica che abbia superato la prova del referendum popolare, è quella del Titolo V (Prodi, 2001), oggi criticata proprio perché andava già nella direzione dell’autonomia differenziata, ulteriore spezzettamento di Stato e PA in una ventina di sistemi regionali sanitari, e oggi persino scolastici e lavorativi. Il sospetto che viene, ascoltando Giorgia Meloni, è così che la riforma serva solo a far acquistare legittimità costituzionale alla destra, distraendoci da temi più urgenti e rischiosi: lavoro, ambiente, bollette, migranti, Pnrr…
Secondo paradosso: sin dal programma elettorale la proposta è stata rafforzare l’esecutivo, magari tramite il presidenzialismo, vecchio cavallo di battaglia dell’Msi di Almirante. In realtà, però, i due leader del centrodestra puntano a un altro bersaglio: la Meloni all’elezione diretta del capo del governo, Salvini all’autonomia differenziata, questo, invece, idea fissa della Lega. Quanto al presidenzialismo, pensateci: mentre Stati Uniti, Francia, e i paesi dell’America Latina, sono squassati dai due effetti destabilizzanti del presidenzialismo – la personalizzazione del potere e la polarizzazione dell’elettorato – è possibile proporlo in Italia?

Terzo paradosso, che merita più considerazioni di dettaglio. Proponendo il rafforzamento dell’esecutivo si attenta all’unico potere che funzioni in Italia – il Presidente della Repubblica – e si abbandona al proprio destino il Parlamento, il ventre molle della costituzione. Il nostro sistema si dice parlamentare, ma proprio il Parlamento non funziona. La sua funzione è stata descritta un secolo fa, quando cominciava la sua lunga crisi da Hans Kelsen: proprio sulle questioni più divisive, sociali o civili, maggioranza e minoranza dovrebbero trattare sinché non pervengono a quel compromesso che è il fine stesso della democrazia parlamentare.
Ha funzionato così anche la nostra Prima repubblica, dove i compromessi si sono chiamati divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia, Servizio sanitario nazionale, Statuto dei lavoratori, prima di essere travolti dall’accusa di consociativismo. Oggi il Parlamento evita come la peste le questioni più divisive, anche quando messo in mora dalla Corte costituzionale, e si è trasformato in una sorta di avanspettacolo, con Gianni Morandi che canta l’inno nazionale o “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, indifferentemente, purché sotto l’occhio delle telecamere.

Più seriamente, il Parlamento è oggi una specie di cassa di risonanza dell’esecutivo, di cui approva anche i decreti-legge più incostituzionali, salvo delegargli provvedimenti sempre più macchinosi e sgangherati. Da parte di un governo che si atteggia a conservatore, è proprio da lì che si dovrebbe ripartire. Ad esempio, a cosa serve il bicameralismo perfetto – due camere, Deputati e Senato, ormai identiche anche per elettori – se non ad allungare i tempi delle riforme, accentuati ulteriormente dai regolamenti attuativi? Ma sono infinite le riforme possibili: leggi elettorali che permettano agli elettori di scegliere loro, e non i partiti, gli eletti; sfiducia costruttiva, per evitare il vorticoso ricambio dei governi; divieto ai parlamentari di cambiare casacca, obbligandoli a dimettersi …
Macché: si preferisce correre l’avventura dell’uomo (o della donna) solo al comando, rischiando di mandare al macero ottant’anni di storia repubblicana.

 

Foto Flickr | agenziami



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