I rischi di un Presidente della Repubblica eletto dal popolo

L’elezione diretta implicherebbe il completo snaturamento del ruolo attribuito al Presidente della Repubblica dalla nostra Costituzione.

Michele Marchesiello

All’s Well That Ends Well’, ‘Tutto è bene quel che finisce bene’: è il titolo di una commedia di Shakespeare che ben si addice alla conclusione della tormentata elezione del nuovo/vecchio Presidente della Repubblica.

Cosa dire? Non che poteva andare meglio, ma che poteva andare davvero peggio. In un estremo anelito di sopravvivenza, i partiti si sono decisi ad abbandonare le grottesche schermaglie di una politica malata terminale, per dare ascolto alla richiesta – un’implorazione accorata – che veniva da gran parte del Paese.

Alcuni esponenti di partito hanno tuttavia voluto approfittare di questo fatto – in sé positivo – per prospettare la necessità di una svolta in senso presidenziale (o, pudicamente, semi-presidenziale) del sistema disegnato dai Padri Costituenti.

Ancora una volta siamo costretti a ringraziare quei Padri della Repubblica, per la loro lungimiranza.

Il passaggio al presidenzialismo – infatti – non costituirebbe un semplice accorgimento di ingegneria costituzionale per assicurare una maggiore sintonia tra la figura del Capo dello Stato e quella che una volta si chiamava ‘volontà popolare’. L’elezione diretta del Presidente della Repubblica implicherebbe infatti il completo snaturamento del ruolo che a quella figura attribuisce la nostra Costituzione. L’elezione popolare di un Presidente, infatti, costringerebbe i candidati a una capillare, spregiudicata campagna elettorale, sotto la bandiera di un partito o di una coalizione di partiti, con finanziamenti delle più svariate e inquietanti provenienze. Una volta eletto poi – risultato ‘vincitore’ – il nuovo Presidente non si spoglierebbe di questa veste ‘di parte’, ma ne esplicherebbe sistematicamente i programmi, l’ideologia, gli interessi più o meno manifesti: che è precisamente quello che i Costituenti hanno voluto escludere. Nella nostra Carta, il Capo dello Stato è di per sé figura ‘super partes’, e deve essere scelto proprio per questa sua qualità: non lo diventa magicamente in virtù della carica.

È proprio su questo presupposto che gli è stata conferita la presidenza del CSM, l’organismo che presiede all’indipendenza e autonomia del potere giudiziario (checché si debba pensare dell’uso che loro, i magistrati, hanno saputo fare di questa indipendenza e di questa autonomia). Un presidente eletto dal popolo sarebbe necessariamente – anche nella scelta, nella nomina e nella destinazione dei magistrati – l’espressione di una parte politica, quella che l’ha fatto emergere nella lotta per il potere e assurgere alla guida del Paese.

Non a caso, nei sistemi ‘presidenziali’ è normale e viene accettato il cosiddetto spoil system, per cui il nuovo Presidente porta con sé e colloca nei punti nevralgici del governo e dell’amministrazione i ‘propri uomini’, quelli che lo hanno assistito e finanziato nella vittoriosa campagna elettorale.

Il fatto che questo sistema funzioni – sino a un certo punto – in altre culture politico-costituzionali, democratiche ma profondamente diverse dalla nostra, non significa che ne debbano essere imitate passivamente le caratteristiche. Sono evidenti a tutti i danni provocati da questi sciagurati e superficiali trapianti: è il caso della cosiddetta riforma del processo penale in senso accusatorio, ispirata più ai telefilm di Perry Mason che a una saggia revisione dei meccanismi processuali.

Se poi si vuole evitare il rischio che il rinnovo del cosiddetto ‘settennato’ presidenziale si trasformi , se non in una prassi, nella possibilità di una pressoché illimitata permanenza al potere del Capo dello Stato, quasi un nuovo Monarca, sarebbe sufficiente introdurre nella Costituzione il divieto di un secondo ‘settennato’, misura che segnerebbe per di più il venir meno delle ragioni che – precisamente nel timore di una intenzione da parte del presidente di promuovere la propria rielezione da parte del parlamento – hanno suggerito l’introduzione del cosiddetto ‘semestre bianco’, causa a sua volta di una pericolosa stasi nel gioco degli equilibri tra poteri dello Stato.

In alternativa, perché non ridurre la durata dell’incarico, da sette a – poniamo – cinque anni, consentendone il rinnovo per una sola volta?

In gran parte dei sistemi democratici è del resto prevista in quattro-cinque anni la durata in carica di un Capo di Stato. Anche nel nostro sistema per l’elezione dei sindaci, sono previsti sia la durata quinquennale che il divieto di un terzo mandato.

È stata la scelta degli Stati Uniti, questa volta meritevoli di essere imitati, dopo che Roosevelt era stato eletto per ben quattro mandati di seguito, quella di limitare a due il numero di volte in cui un cittadino potesse essere eletto presidente.



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