Ritorniamo alla ragione

Pensiero critico e responsabilità etiche: una riflessione sul ruolo degli intellettuali in questi tempi difficili.

Teresa Simeone

Mai come in questo periodo si avverte la necessità di pensieri limpidi, idee chiare e sguardi lungimiranti.
La globalizzazione della comunicazione digitale, con la possibilità del web surfing, lo spostarsi, cioè, da una pagina all’altra senza interruzione e in modo automatico, in una ricerca forsennata che finisce per generare un inarrestabile Information Overload, ci travolge con un vero e proprio tsunami di notizie in cui è difficile districarsi. Luciano Floridi, uno dei maggiori esperti della filosofia dell’informazione, quando ha coniato il termine di “infosfera”, l’ha definita come “la globalità dello spazio delle informazioni“, che include “sia il cyberspazio (Internet, telefonia digitale, ecc.) sia i mass media classici (biblioteche, archivi, emeroteche, ecc.)”. [1]

Nella società liquida e instabile in cui siamo immersi, in balia delle più pervasive e sofisticate tecniche di comunicazione, confusi nella frammentazione dei media e sottoposti a un bombardamento non sempre neutralizzato da adeguate contraeree critiche, è facile perdere l’orientamento e trovarsi coinvolti in situazioni in cui si finisce per diventare vittima delle emozioni del momento e incapaci di gestire la mole sproporzionata di dati da cui si è investiti. In questa sorta di burnout da stress informativo, fortemente compromesse possono risultare attenzione e capacità analitica, con conseguente calo di presenza a se stessi e alla propria storia.

A complicare il quadro è il proliferare nella rete, dove il successo è dato non dalla serietà della notizia ma dalla velocità attrattiva con cui è postata, bruciata subito dopo da nuove e più aggiornate news, delle fake. Dovremmo, per questo, inviare ogni mattina un pensiero di ringraziamento ai siti di debunking che sono impegnati 24 ore su 24 a disinquinare la comunicazione dalle notizie che abili mestatori v’immettono senza soluzione di continuità.

Fondamentale, dunque, ancor più che nel passato, è il richiamo alla chiarezza, alla precisione delle fonti, all’impegno dell’approfondimento e necessario il ruolo degli intellettuali che, però, non sempre accettano la sfida social, nel tentativo di preservare il distacco della riflessione e di sottrarsi al tramestio fastidioso e volgare dei toni e dei livelli a cui si è abbassata la comunicazione. Eppure la necessità di presidiare anche questo canale si fa cogente: dove il pensiero tace, la pancia urla.

L’esplodere dell’irragionevolezza ha intossicato ricerche e studi, erodendo anche la credibilità di coloro che rappresentavano baluardi critici contro il diffondersi di oscurantismi e superstizioni; nello stesso tempo è emerso un altro modo di interagire, stavolta non alimentato soltanto dall’ignoranza ma, addirittura, in moltissimi casi, dall’eccesso di conoscenze e di accessibilità ai canali del sapere. Persone con un alto grado di istruzione diventano testimonial di campagne corrosive della fiducia nella ricerca scientifica, giustificando l’attacco con l’appello alla “democrazia” della cultura e con il “superiore obbligo”, data la funzione eversiva del pensiero, di dover estendere il sospetto su tutto. Irrefutabile, beninteso, è il valore della critica, da non confondersi, però, con l’uso caotico del dubbio, il cui esercizio richiede una metodologia ordinata e rigorosa che non tutti padroneggiano. Senza capacità di condurlo, il dubbio diventa un naviglio senza timone che procede a destra e a manca nelle acque dell’oceano, privo di bussola e portolani per evitare il naufragio. Lo possiamo verificare leggendo i tanti commenti e post in cui gli argini del buon senso sono saltati, insieme all’umiltà nel riconoscere gli ambiti di competenza. Maggiore, dunque, non minore è la richiesta di intellettuali che siano in grado di spingere lo sguardo “oltre”, che abbiano un orizzonte, che lo indichino o almeno lo propongano nel caos delle direzioni sconclusionate e prive di scopi che si aprono. Anche ricorrendo a un uso sapiente e calibrato dei social. La turris eburnea, che un tempo era la biblioteca e oggi potrebbe essere il proprio studio lontano dal web, se pur comprensibile nella scelta, ha come contraltare quello di restringere il campo del pensiero all’interno di uno spazio a-sociale in cui si sia protetti ma ininfluenti nel dibattito contemporaneo. Soprattutto nella difesa di alcuni valori che, checché se ne dica, sono sempre necessari: la lotta alle disuguaglianze economiche, sociali, culturali, il rispetto per l’ambiente, la difesa dei lavoratori contro le nuove schiavitù, i diritti inviolabili di ogni essere umano, l’antifascismo, la tutela delle Costituzioni democratiche, un’economia più giusta e sostenibile. C’è ancora, nonostante tutto, un discrimine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, tra ciò per cui impegnarsi e ciò per cui non vale la pena farlo. Quando si obietta: “Sì, ma chi stabilisce cosa è giusto e cosa no? Siamo, dunque nello Stato etico?”, si rischia di annullare l’esistenza di qualcosa che superi le differenze individuali o culturali e che individui un patrimonio comune di valori da tutelare. Al di là del relativismo conoscitivo, morale, culturale già fissato in età classica dai filosofi e garante del rispetto delle diversità e senza voler affermare un assolutismo valoriale dogmatico, c’è, però, qualcosa su cui tutti possiamo concordare. Il diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà; la dignità umana; il rispetto della verità dei fatti (una volta che siano accertati) oltre le menzogne delle opinioni; il ripudio della violenza e la ricerca di modalità pacifiche di convivenza non sono forse obiettivi comuni? E, allora, quando un intellettuale assume una posizione, nella difesa di ciò che è importante per la salvezza della vita e della dignità di ciascuno, sta limitando la propria libertà o la sta esercitando nella sua pienezza, come adesione a una necessità che gli deriva dalla sua formazione intellettuale ed etica?

La morale, come ha scritto Jonas, è “altruistica”, non può mai avere per fine se stessa ma ricerca il bene come “causa nel mondo”, anzi “del mondo”.[2]

Un pensatore lavora con l’intelletto, connette informazioni, le elabora, ma, nel mentre, propone visioni di realtà, apre orizzonti di senso. È un teoreta, abituato a girovagare tra i pensieri, superare eristiche manipolazioni e comprendere cosa si nasconda oltre i fatti. Certo: farlo in periodi di relativa calma è facile; più complicato diventa in situazioni limite in cui si è coinvolti e in cui sono centrali i bisogni di sopravvivenza primaria, le strutture portanti della nostra esistenza.

Questa pandemia, che ci ha messi all’angolo, costringendoci a confrontarci con le nostre idee e i nostri fantasmi, ha slatentizzato paure, energie, resistenze che molti di noi non credevano di avere: è stata la cartina di tornasole per la saldezza di tante convinzioni o per il crollo di altre. Abbiamo, altresì, avvistato, biasimato e amato filosofi, scienziati, pensatori nei quali ci riconoscevamo. Ci siamo affezionati alle loro analisi o le abbiamo respinte come incompatibili con la nostra personale visione delle cose. Alcuni ci hanno sorpreso, altri hanno confermato la nostra fiducia nella coerenza delle loro idee. Il dibattito è stato acceso e ha spesso chiamato di nuovo in causa l’eterna domanda sulla funzione dell’intellettuale: deve esprimere la propria posizione considerando anche l’influenza che può avere su coloro che seguono il dibattito pubblico o procedere senza alcuna preoccupazione per le conseguenze sociali di ciò che afferma? Ovviamente, come sosteneva Fichte a proposito della scelta tra dogmatismo e idealismo, non c’è una risposta giusta ma ognuno sceglie quella che risponde meglio alla propria indole. Aggiungerei, anche al senso di responsabilità che, in quanto essere riconosciuto autorevole, si attribuisce.

Jonas ha descritto molto bene la “cura” che un politico e un genitore hanno nei confronti dei propri figli “civili” e “naturali” e di come non possano evitare di interrogarsi, prima di ogni scelta che dovesse coinvolgerli, sul futuro che si aprirebbe per loro. Lo sa bene anche l’insegnante che, di fronte a una classe che non ha ancora costruito o potenziato gli strumenti critici per filtrare ciò che ascolta, deve stare attento a non oltrepassare il limite che gli deriva dalla sua funzione educativa. È libero, certamente, ma non da se stesso e dal dovere, innanzitutto etico, che ha nei confronti di studenti che subiscono, in qualche modo, il suo “potere di competenza”.

Un intellettuale non ha di queste preoccupazioni: deve poter riferire il proprio punto di vista senza temere che possa in qualche modo recintarlo all’interno di un dovere che finirebbe per privarlo della libertà di manifestazione del pensiero. Su questo siamo d’accordo. E, però, quando incontriamo un pensatore che qualche domanda sulle implicazioni di ciò che sostiene si pone – senza negarsi che i martiri della libertas philosophandi  sono stati ridotti al silenzio non per ciò che affermavano ma per l’influenza che le loro idee avrebbero avuto, segno che la parola non è innocua né sterile di effetti sul futuro – siamo in qualche modo affascinati dal suo spessore umano. E lo riconosciamo come autorevole. Soprattutto se il suo sguardo, e ritorniamo a Jonas, si posa su chi avvertiamo essere vulnerabile, aver bisogno di cure. D’altronde, se veramente un filosofo pensasse che ciò che dice non abbia conseguenze sugli altri, perché le esprimerebbe? Perché le renderebbe pubbliche? Nel farlo, potrebbe mai nascondersi, come soggetto etico, la possibilità di essere individuato come punto di riferimento, anche oltre il suo mondo e le sue intenzioni, fermo restando che non si è certo responsabile dei comportamenti altrui? E quando il tema non fosse riferito a una libertà astratta ma al “benessere altrui”?

Ogni essere vivente è fine a se stesso, ha scritto ancora il teorico dell’etica della responsabilità, ma, nella compartecipazione al destino umano, i fini dei suoi simili, sia che egli li condivida oppure si limiti a riconoscerli negli altri, non possono non confluire nel suo proprio fine: la responsabilità dell’uomo per l’uomo. [3]

Ciascuno, nella personale convinzione che la verità è figlia del tempo e che darà ragione alla lungimiranza della propria analisi, sceglie come svolgere il proprio ruolo, se mettere al primo posto una libertà intellettuale senza alcuna limitazione o la responsabilità verso il prossimo e verso il mondo.

NOTE

[1] https://st.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2010-05-21/viaggio-padre-infosfera-075500_PRN.shtml

[2] Hans Jonas, Il principio responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica, Piccola Biblioteca Einaudi, pag. 108

[3] Hans Jonas, Il principio responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica, Piccola Biblioteca Einaudi, pag. 124



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