Ritorno al passato: Marco Rizzo con Putin, i pacifisti con Giorgio La Pira

Nello scemenzaio del dibattito pubblico nostrano si arriva all’obbrobrio di Marco Rizzo che inneggia alla morte di Gorbaciov.

Pierfranco Pellizzetti

Come ha scritto Lucio Caracciolo sul numero 6/22 di Limes, “molti fra noi occidentali sono stanchi di Ucraina, ma l’Ucraina non è stanca di noi”. Ossia, dopo la totale occupazione mediatica della conversazione ininterrotta sull’invasione russa, durata alcuni mesi, ormai si direbbe scattato l’effetto “marziano a Roma”. Come nella piece di Ennio Flaiano, l’alieno atterrato nella capitale veniva accantonato in quanto noioso e risaputo dopo poche settimane di celebrità, così ora la tragedia di un popolo produce stanchezza e sbadigli. Un segnale è la sparizione dei pacifisti della prima ora, intenti a mostrarci quanto belle fossero le loro anime e quanto eticamente encomiabile risultasse il loro tormentone “pace/trattativa”; nella puerile ricostruzione della vicenda come un litigio tra ragazzini irresponsabili, da riportare alla ragione con qualche rimbrotto e l’ostentazione di una superiore moralità. Il semplificazionismo dei cattolici davanti alle questioni geopolitiche, affrontate con l’allegra sfrontatezza che viene da lontano di chi presume di avere la verità (di fede) in tasca. La politica come predicazione, perennemente sul filo del narcisismo, talora in area fiorentina. A partire dall’esempio preclaro del “sindaco santo” Giorgio La Pira, che anteponeva alle funzioni amministrative l’impegno per la pace del mondo, incontrando Ho Chi Min e ammonendo Pinochet (senza ottenere particolare ascolto da entrambi). Effetto inevitabile dell’anteporre la propria visione del mondo alla realtà vera del mondo. E se il mondo non ascolta ci si scoccia e si passa a un’altra predicazione. Senza rendersi conto del perché – ad esempio – Putin non ha dato retta a chi diceva “pace, pace”. Visto che in ballo nella vicenda Ucraina non c’è qualche modesto possedimento terriero da fanciullesco gioco del Monopoli, bensì niente meno che il ridisegno degli equilibri mondiali dopo la fine del secolo americano. Perseguito da un politico visionario (nel senso deteriore del termine) che vagheggia/vaneggia il sogno di ripristinare l’impero degli zar. Sicché il bersaglio del Cremlino non è Kiev bensì il soft power americano come egemonia mondiale e la condizione dell’Unione europea quale caudataria di Washington; da ridurre a miti consigli (e smascherarne l’impotenza) attraverso le mosse iugulatorie in politica energetica.

Tutti punti critici che sfuggivano all’analisi dei propugnatori nostrani di pace come ora agli appassionati di nuovi “marziani a Roma”, atterrati nel dibattito elettorale. Sicché la “stanchezza” di Ucraina” – denunciata da Caracciolo – evolve nello scemenzaio di un dibattito su chi ha fatto cadere Draghi (che se ne è voluto andare da solo), sulla necessità di più Europa (questa Europa), sul maschilismo di chi vorrebbe privare Giorgia Meloni del titolo di donna della Provvidenza, sui campi larghi/lunghi del geometra prestato alla politica Enrico Letta, su chi nella vita ha mai lavorato (nella scelta imbarazzante tra Matteo Salvini, Andrea Orlando e il portaborse confindustriale Carlo Calenda), su chi ha fatto più cose buone tra Benito Mussolini e Silvio Berlusconi.

Mentre la sempre incombente questione energetica non si traduce in un esame critico sui ritardi nella transizione alle rinnovabili, bensì su cavatine (blocco dei prezzi) e ritorni al passato (carbonizzazione e nucleare a tavoletta); l’impostazione preferita da due controriformisti patentati quali il nume offeso Mario Draghi e il ministro illusionista Roberto Cingolani. Sicché tra giochi delle tre carte e predicozzi questo è quanto ci passa il dibattito pubblico nostrano. Perennemente retroverso, sino ad arrivare all’obbrobrio di Marco Rizzo, che dichiara di aver atteso trent’anni per poter inneggiare alla morte di Gorbaciov. In perfetta sintonia con il reazionario zarista Putin nell’imputare all’ex premio Nobel per la pace la liquidazione dell’URSS. Spiace non sia più tra noi l’amico Giulietto Chiesa per spiegare che, nonostante gli errori (riformare l’impero sovietico a partire dal dibattito pubblico e non dall’economia, come fece con successo Deng Xiaoping in Cina) Gorbaciov, smontando la costruzione propagandistica reaganiana dell’impero del male, disarmava la nevrosi manichea (da Guerra Fredda) su cui si puntella l’impero stelle-strisce. Riflessioni improponibili nell’inarrestabile decadenza in cui vegetiamo. Tra sterili narcisismi e ottusa cattiveria.



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