La rivincita del lavoro negli Stati Uniti

Negli States un numero crescente di lavoratori ha smesso di accettare condizioni di lavoro degradanti e paghe troppo basse.

Elisabetta Grande

Qualcosa di inaspettato e straordinario sta accadendo negli States, con ricadute – possibili o già in corso – nel mondo intero. I lavoratori stanno riacquistando peso contrattuale, dopo quarant’anni in cui le forze del mercato li hanno penalizzati senza pietà e il sistema giuridico li ha abbandonati alla loro triste sorte di parti deboli delle relazioni lavorative. La fine del lockdown pandemico, che tutti si aspettavano coincidesse con un esercito di riserva di potenziali lavoratori in cerca di occupazione, ha invece portato con sé lo sbalorditivo venir meno di disponibilità di forza lavoro, per la prima volta (e finalmente) “choosy”, come direbbe Elsa Fornero.

“Il direttore generale di Domino’s Pizza si è lamentato che la società non riesce ad assumere abbastanza fattorini. Lyft e Uber dicono di avere problemi analoghi. Un McDonald’s in Florida ha offerto 50 dollari a chiunque si presenti per un’intervista di lavoro. E alcuni fast food hanno esposto cartelli nelle loro vetrine con la scritta ‘nessuno vuol più lavorare’”, scriveva già a maggio scorso sul New York Times David Leonhardt. Un recente sondaggio di CNBC fra un gruppo selezionato di direttori finanziari delle più grandi corporation americane riporta come ben il 95% di loro riferisca di grandi difficoltà per le società che rappresentano nel trovare personale da assumere e le ultime statistiche del dipartimento del lavoro confermano che la domanda di impiego è più alta rispetto al numero di coloro che lo cercano .

Per quanto – al pari di ciò che avviene a casa nostra con la questione del reddito di cittadinanza – qualcuno abbia voluto spiegare il fenomeno del così detto “labor shortage” (ossia della carenza di lavoratori) negli Stati Uniti addebitandolo ai 300 dollari integrativi del sussidio di disoccupazione previsti a livello federale fino al 5 settembre 2021, una simile spiegazione non ha retto alla prova dei fatti. Non solo il mese di settembre ha addirittura visto una diminuzione del tasso della popolazione in età occupabile lavorativamente attiva (scesa a 61.6% rispetto al 61.7% di agosto), ma già quando, a inizio estate, 26 Stati a maggioranza repubblicana – sulla scorta di quella falsa retorica – avevano anticipatamente eliminato l’integrazione al sussidio il numero degli aspiranti lavoratori non era affatto aumentato.

Com’è spiegabile allora che i tanti, che un lavoro non lo hanno, non lo cerchino o non accettino le proposte che provengono dalle imprese alla disperata ricerca di mano (o mente) d’opera, qualificata o meno? O che addirittura un numero esageratamente alto, come mai era accaduto in precedenza (4.3 milioni di lavoratori solo ad agosto, per un mai toccato prima tasso del 2.9% della forza lavoratrice), dia le dimissioni dal posto che occupa? C’è chi ritiene sia ancora la paura del covid a trattenere le persone dal cercare o accettare le offerte di lavoro, chi – prima dell’inizio delle scuole – pensava fosse la necessità di stare con i figli la cui didattica avrebbe di nuovo potuto essere a distanza, chi immagina che ciò che consente alla gente di stare a casa dopo il lockdown è il fatto che durante quel periodo ha risparmiato non avendo potuto spendere come prima, chi dice che si tratta di un fenomeno di esaurimento psicologico dei lavoratori stressati dalla pandemia, chi dà la colpa all’obbligo vaccinale introdotto da alcune società per i propri dipendenti. Il fenomeno del rifiuto del lavoro da parte dei lavoratori “non è una carenza di forza lavoro”, scrive invece Bob Reich, che come sempre coglie nel segno, “quel che sta realmente accadendo è più precisamente descrivibile come una carenza di salario sufficiente per vivere, una carenza di giusta retribuzione per i lavori rischiosi, una carenza di aiuto per le famiglie con figli, una carenza di permessi per malattia e di adeguata copertura sanitaria”. “La riluttanza a lavorare” insomma “non ha nulla a che vedere con il sussidio di disoccupazione. Ha molto a che vedere invece con il fatto che i lavoratori sono stufi”).

Già, perché sono quarant’anni che i salari della stragrande maggioranza dei lavoratori sono stagnanti e se dalla fine degli anni Settanta al 2018 i manager delle grandi multinazionali hanno visto crescere i loro stipendi complessivi di quasi il 1000 per cento, i lavoratori maschi più poveri – ossia quelli che stanno al 10mo, e quelli al 50mo percentile – hanno avuto nello stesso periodo una diminuzione dei loro salari rispettivamente del 7 e del 3%. Nel medesimo lasso di tempo tutti i lavoratori e le lavoratrici senza diploma universitario hanno visto decrescere i loro redditi da lavoro fino all’11.1% e ancora nel 2019 il lavoratore mediano maschio, a parità di potere di acquisto, aveva un salario più basso rispetto al 1973. Già nel 2016 Oxfam America riportava come quasi la metà dei lavoratori e delle lavoratrici statunitensi lavorasse per una paga oraria al limite della sopravvivenza mentre studi più recenti raccontano che prima del coronavirus negli Stati Uniti il 44 per cento degli occupati riceveva una paga oraria da povero e che la stragrande maggioranza di tutti i lavoratori molto spesso arrivava a stento alla fine del mese senza mettere nulla da parte. Il precariato dei lavoretti ha, d’altronde, sostituito sempre di più il lavoro stabile, mentre i permessi, le ferie o i benefici assicurativi sono via via diminuiti, quando non sono stati addirittura azzerati. Il salario minimo è poi davvero troppo basso per sopravvivere: non indicizzato al costo della vita e da troppo tempo fermo, a livello federale, a 7 dollari e 25 centesimi l’ora (quando, se fosse cresciuto con la produttività del paese, sarebbe pari almeno a 20 dollari e se avesse tenuto il ritmo degli stipendi delle fasce dirigenziali sarebbe oggi di 23 dollari l’ora non garantisce più a nessuno un tenore di vita minimamente decoroso.

È a tutto questo che i lavoratori americani hanno avuto la forza di ribellarsi, grazie alla pandemia che paradossalmente ha offerto loro l’opportunità di farlo. Dopo un periodo in cui molti hanno potuto apprezzare una diversa qualità della vita, in tanti si sono domandati che senso avesse alienare la propria esistenza a prenditori di lavoro che offrono loro sempre di meno. Sono allora diventati “choosy” e hanno smesso di accettare condizioni di lavoro degradanti e paghe troppo basse. Il risultato è stato un circuito virtuoso, che per la prima volta dopo decenni ha comportato importanti aumenti salariali, anche a favore dei lavoratori meno qualificati (1 2 3), e al contempo ha dato fiducia a chi ha continuato a non accettare – o si è dimesso/a da – occupazioni poco gratificanti, in quanto ha pensato di poter ragionevolmente ambire a un lavoro più dignitoso e meglio pagato. Ciò, a sua volta, ha fatto ripartire la spirale favorevole ai lavoratori. Questi ultimi hanno, così, conquistato un potere contrattuale da tempo inedito, che sta obbligando i datori ad adattarsi alle loro richieste non solo salariali, ma anche di condizioni lavorative. I consulenti spiegano, infatti, per la prima volta alle imprese che devono certamente ridurre il più possibile il bisogno di mano d’opera tramite l’automazione, ma anche aumentare gli stipendi, creare ambienti lavorativi più friendly e coinvolgenti, dare più benefici ai dipendenti, accogliere le domande di smart working quando possibile, e via elencando. Né l’altro lato della medaglia, quello dell’inflazione, sembra far davvero paura, poiché i profitti delle multinazionali sono oggi talmente alti che basterebbe che accettassero di ridurli di poco per assorbire il maggior costo del lavoro.

Per la prima volta da decenni a questa parte i lavoratori hanno preso coraggio ed è in questa chiave che si possono leggere i tanti scioperi che hanno caratterizzato l’appena trascorso mese di ottobre – per questo motivo denominato strike-tober – che hanno coinvolto migliaia di persone, da New York al Michigan, dall’Illinois, Iowa o Kansas al South Carolina. I lavoratori di McDonald’s, del Kaiser Permanente, della Kellogg’s così come quelli della John Deere hanno scioperato, non solo per un salario migliore per sé ma anche per i futuri dipendenti, chiedendo più rispetto e condizioni generali decorose. All’orizzonte paiono oggi perfino prospettarsi sindacalizzazioni mai finora conquistate, come quelle presso le sedi di Starbucks o gli stabilimenti di Amazon di New York.

Si tratta di un’inaspettata rivincita della forza lavoro che, qualora perdurasse, potrebbe rendere la società statunitense finalmente un po’ meno diseguale.

 

(credit foto EPA/TANNEN MAURY)



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