Né guerra civile, né rivoluzione. Piuttosto, una faida

Nel mondo globalizzato, la guerra ha dimostrato di poter fare a meno di qualunque ideologia, perché capace di generare e alimentare un’intera filiera ad alta redditività che coinvolge tutte le dimensioni del capitalismo: dall’industria degli armamenti, al traffico di armi, alla quotazione in borsa delle corporation. La guerra è mercato. La via diplomatica più efficiente per raggiungere la pace, oggi, è rendere meno conveniente la guerra, privando davvero gli oligarchi delle loro immense ricchezze. Ma per farlo, le élite democratiche devono avere il coraggio di rinunciare anche a una parte delle loro.

Fabio Armao

La pseudo-marcia su Mosca dei reparti della Wagner guidati da Evgenij Prigozhin, esauritasi in meno di 24 ore e conclusasi con l’esilio a Minsk del macellaio di Putin, ospite di un altro socio dell’uomo-che-volle-farsi-zar, l’immarcescibile leader bielorusso Lukashenko, potrebbe ben figurare nella trama di una commedia farsesca di amori e tradimenti (in guerra). Ciò che ci impedisce di sorriderne, tuttavia, è che si inserisce in una realtà quotidiana di massacri e distruzioni, e di rischi crescenti per la sicurezza, ambientale prima ancora che politica, dell’intero pianeta.

L’evento sembra aver colto di sorpresa tutte le principali cancellerie occidentali insieme a esperti e giornalisti spingendoli, per reazione, a sovrastimarne – meglio, a equivocarne – la natura e a prefigurare il pericolo di una guerra civile o persino di una rivoluzione. Ma se così fosse, dove sono le masse? Quali sono le ideologie inconciliabili e i modelli di nazione o di regime politico in insanabile conflitto tra loro? Se Putin è lo zar, davvero pensiamo a Prigozhin, il cui orizzonte mentale non va oltre il perseguimento violento degli interessi suoi e dei suoi sodali, come a un novello Lenin?

Durante il presunto colpo di stato da lui ordito, mentre si moltiplicavano i voli in uscita da Mosca di chi, potendoselo permettere, voleva mettere in salvo pelle e capitali, gli unici a scendere in strada sono stati i fan del wagneriano desiderosi di un selfie (che potrebbe anche acquistare presto il valore di una reliquia). Se in ballo ci fosse veramente la salvezza della Santa Madre Russia, come spiegare il fatto che Putin, ancora pochi giorni fa, abbia cercato di risolvere il problema della mancanza di reclute da mandare al massacro al fronte, subappaltandone il reclutamento a una ventina di società private, invitandole a raschiare il fondo delle prigioni, nel tentativo tra l’altro di arginare il monopolio della Wagner? O che, nelle ore in cui i mercenari muovevano alla volta della capitale della seconda superpotenza nucleare al mondo, l’unica voce a prendere pubblicamente le difese di Putin sia stato il leader delle milizie cecene Kadyrov?

Come ho già sostenuto in queste pagine, l’invasione russa dell’Ucraina non rappresenta affatto un ritorno al passato; ma, piuttosto, l’apoteosi delle guerre neoliberali che si sono diffuse dopo il 1989. Nel conflitto in corso, i rapporti di forza tra i clan degli oligarchi che negli ultimi vent’anni hanno saccheggiato le risorse della Russia a proprio esclusivo vantaggio contano ben più di qualunque ideologia nazionalista. In estrema sintesi, la guerra di aggressione è un tentativo (poco riuscito, a dire il vero) di esternalizzare la crisi strutturale interna determinata da un regime rivelatosi auto-fagocitante. Gli eventi del 24 giugno allora, a saperli leggere, hanno un effetto illuminante, rivelatore, perché rendono evidente oltre ogni possibile dubbio che quella che si combatte attorno al Cremlino non è una guerra civile, bensì una faida.

La faida è qualcosa di molto più sofisticato della semplice vendetta e non si riduce a un arcaismo tipico delle aree di sottosviluppo; è, a tutti gli effetti, una soluzione giuridica che gli studiosi del Medioevo non a caso associavano alle “politiche matrimoniali” come vero e proprio meccanismo di riparazione del danno dei conflitti interni alla comunità. Si pensi al codice barbaricino in Sardegna o al Kanun in Albania. La loro utilità derivava dal fatto di agire come sistema di autoregolazione del clan, in grado di garantire un efficace controllo sociale dei membri del gruppo, in particolare attraverso il meccanismo della reintegrative shaming, che fa seguire a espressioni anche significative e dure di disapprovazione da parte della comunità di riferimento, gesti di riaccettazione: invece di stigmatizzare il reietto ed espellerlo, gli si offre sempre l’opportunità di rientrare nel gruppo, perché il vero problema non è il suo comportamento, ma la vergogna derivante dal fatto che l’intera comunità abbia accettato quel comportamento. La faida ha una dimensione rituale, persino teatrale a volte, che trova puntuale riscontro nella messa in scena cui abbiamo assistito a Rostov e dintorni.
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Questo, banalmente, ci permette di spiegare come, a poche ore dalla condanna in apparenza senza appello da parte di Putin – che, seppure non nominandolo, l’aveva definito un traditore – Prigozhin abbia potuto fare marcia indietro senza perderci la faccia e, oltretutto, accettando di trovare rifugio a casa del più fedele alleato di quello che sembrava essere fino a un attimo prima il suo più acerrimo nemico: una soluzione che, certo, presenta dei rischi (persino l’onore tra membri di un clan può essere tradito), ma che in un contesto giuridico statale non sarebbe stata concepibile (e, in effetti, nessuno ha immaginato che si potesse estendere anche a lui l’amnistia concessa ai suoi soldati).

Contestare l’idea che la guerra risponda ancora ai canoni otto-novecenteschi basati sullo stato-nazione non è una pignoleria intellettualistica. E, ad essere onesti, il fatto di parlare di faida non è affatto rassicurante e, soprattutto, non semplifica il quadro, semmai lo complica, per l’oggettiva difficoltà di avere informazioni sulle reali dinamiche tra i diversi clan. Pretendere di non vedere questa nuova realtà, tuttavia, rischia soltanto di resuscitare il vortice dei nazionalismi al punto da rimettere in gioco proprio quelle masse che fino ad oggi hanno dimostrato in ogni modo di non volere tornare protagoniste sui campi di battaglia (il popolo ucraino, ricordiamocelo, combatte soltanto perché costretto a difendersi).

Nel mondo globalizzato, la guerra ha già ampiamente dimostrato di poter fare a meno di qualunque ideologia, perché capace di generare e alimentare un’intera filiera ad alta redditività che coinvolge tutte le dimensioni del capitalismo: dall’industria degli armamenti, al traffico di armi, alla quotazione in borsa delle corporation che gestiscono ormai in piena autonomia il complesso militare-industriale. La guerra è mercato. La politica, il potere politico, continua a rivendicare con successo la propria funzione clausewitziana di matrice della guerra stessa; ma trascurarne la natura sempre più oligarchica, la crescente propensione a compromettere i propri ideali a tutto vantaggio degli interessi accumulati nella sfera del capitalismo clientelare, costituisce un errore.

O un dolo. A pensare male, la propensione anche dei governi occidentali a buttare la croce sulle spalle delle masse affette da un nazionalismo atavico potrebbe celare il loro bisogno di distrarre l’attenzione dalle relazioni che continuano a intrattenere con autocrati e dittatori di mezzo mondo nella sfera occulta e fuori controllo che è diventato il capitalismo finanziario. La via diplomatica più efficiente per raggiungere la pace, oggi, è rendere meno conveniente la guerra, privando davvero gli oligarchi delle loro immense ricchezze. Ma per farlo, le élite democratiche devono avere il coraggio di rinunciare anche a una parte delle loro.

 

Foto Ansa | EPA/STRINGER



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