Rivolte in Francia: l’ennesima dimostrazione della dilagante frustrazione e rabbia in Occidente

Nella rubrica Confronti ospitiamo articoli su temi di grande rilevanza sociale e politica che riteniamo possano dare lo spunto per un dibattito ampio e articolato fra visioni anche molto diverse fra loro. Il seguente articolo tratta delle rivolte scoppiate a Parigi, che hanno poi coinvolto altre città francesi e di come queste non possono essere considerate unicamente come la risposta a un abuso della polizia.

Enrico Cipriani

La maturità di una democrazia può essere giudicata nei momenti di crisi. E questo è un momento di crisi. Le rivolte scoppiate a Parigi, che hanno poi coinvolto altre città francesi e persino, in parte, la Svizzera non possono essere considerate unicamente come la risposta a un presunto abuso della polizia [1]. Lo schema è, certamente, ricorrente: lo stesso avvenne nel caso delle rivolte nelle periferie parigine del 2005 e lo stesso è avvenuto recentemente negli USA con il caso George Floyd. In tutti questi casi, una risposta legittima si trasforma in una lotta armata violenta e sanguinaria, che lascia spazio a iniziative quali saccheggi e distruzioni. La sommossa francese di questi giorni è stata, in questo senso, molto grave. Un poliziotto si è salvato dalla morte grazie a un giubbotto antiproiettile, essendo stato colpito da un’arma da fuoco. È notizia recente che un giovane marsigliese ha perso la vita perché colpito al petto da un proiettile di gomma. I fermi sono stati migliaia e l’età media delle persone fermate è di diciassette anni. Il Presidente Macron ha dovuto abbandonare gli impegni internazionali per gestire la situazione e non ha nascosto le difficoltà incontrate nel gestire la rivolta: non sono bastate le decine di migliaia di agenti schierati. Un’auto incendiata è piombata in casa di un sindaco, ferendone la moglie, quasi si fosse in un contesto di guerra terroristica.

Macron ha parlato di protesta strumentalizza. In parte ha ragione, ma ciò è del tutto insufficiente per spiegare cosa sta avvenendo (in Francia e nelle democrazie occidentali). Il sistema socio-economico francese ha mostrato, in più occasione, le sue contraddizioni e crepe. Come dimenticare la violenta protesta dei gilet gialli? Come non fare caso alle proteste dei lavoratori che hanno investito la Francia in più occasioni? L’insoddisfazione per la situazione è stata manifestata apertamente, ormai, non solo dalla popolazione immigrata, ma anche dai lavoratori più deboli. In tutti questi casi, il clima è stato acceso, anche se non sempre si è arrivati alla violenza dei giorni passati.

Guardando a questi fenomeni, risulta abbastanza evidente che cercare una spiegazione a quanto avvenuto facendo riferimento alla provenienza geografica e culturale degli oppositori, chiamiamoli così, è corretto solo in parte. Certamente colpisce che a protestare siano state persone di seconda generazione, nati in Francia e spesso essi stessi cittadini francesi, ma questo è un fattore, non il fattore necessario a spiegare quanto avvenuto. Si legge spesso di opinionisti i quali sostengono che i giovani di seconda generazione non si sentono integrati, pur essendo essi stessi francesi; che non si sentono né francesi né del Paese d’origine dei genitori, che vivono una crisi. Sarà anche vero. Il punto, però, è che il fattore scatenante di questa ma anche delle altre proteste sembra essere piuttosto un malcontento diffuso in più fasce sociali e in più ambienti sociali e classi di lavoratori, specialmente nelle grandi città, dove le differenze in termini di qualità di vita si palesano maggiormente. Le persone non protestano quando stanno bene; protestano quando stanno male. E sia la Francia che gli altri Stati europei, chi più chi meno, sono da tempo prigionieri, sul piano economico, di logiche consumistico-capitalistiche che portano a un allontanamento dalle garanzie di servizi minimi e di welfare che dovrebbero essere difesi in uno Stato civile.
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Le rivolte in Francia e la sofferenza economica e sociale

È questa la prima causa della crisi della fiducia nei sistemi democratici cui si assiste, ormai da anni, in Europa, e che si manifesta vuoi con l’emergere di nuovi estremismi che si oppongono all’idea di Stato liberale e democratico, vuoi con livelli di assenteismo elettorale che dovrebbero far riflettere: che, ormai da decenni, le democrazie europee non sono più in grado di crescere economicamente o, in ogni caso, anche se crescono economicamente, la distribuzione della ricchezza è fortemente squilibrata, con pochissimi che si arricchiscono e molti la cui condizione rimane precaria e debole sul piano economico-lavorativo; e ciò avviene, sia detto, in un contesto nel quale lo Stato, cioè le istituzioni pubbliche, non sono più in grado di garantire quei cuscinetti sociali (sussidi, servizi sanitari fondamentali, istruzione di qualità, ecc.) che sarebbero necessari in un contesto di crisi come quello appena menzionato. Insomma, la miscela è micidiale: capitalismo sfrenato alimentato da un consumismo parossistico, e assenza quasi totale di intervento statale. Dato questo esito, non stupisce che le democrazie non siano più attrattive. La gente non crede più, o ci crede sempre di meno, nelle democrazie, perché le democrazie non garantiscono loro il benessere. Si noti, per collegarsi a quanto detto sopra, che l’insoddisfazione è manifestata a più livelli.

Che dire dell’assalto al Congresso americano compiuto da alcuni estremisti di destra? Che dire del clima incandescente che si respira nella destra americana, pronta a ricorrere alla violenza per far valere le sue ragioni? Si potrebbe essere tentati di sostenere – e sarebbe un errore, perché significherebbe confondere il sintomo con la causa e condannare una violenza più di un’altra, mentre la violenza è tutta da condannare – che le ragioni che spingono la destra statunitense alla violenza siano, diciamo così, meno legittime di quelle che spingono coloro che manifestano perché vogliono vedere riconosciuti i loro diritti; questo è, ripeto, un errore: le ideologie suprematiste, tali per cui io sono umanamente, costruttivamente migliore di te perché provengo da una certa etnia o da una certa storia, prendono piede quando c’è insoddisfazione, vengono prese come giustificazione per la ribellione da coloro i quali sono troppo orgogliosi per riconoscere la loro insoddisfazione, e portano spesso a identificare in chi non ha responsabilità il colpevole delle proprie sventure. In una battuta, si potrebbe dire che nei momenti in cui le aspettative non vengono soddisfatte, gli immigrati si sentono più immigrati, gli autoctoni più autoctoni; ad aumentare, in entrambi i casi, è il senso di appartenenza a un gruppo e l’insofferenza verso gli altri gruppi (una chiusura, insomma, rispetto a chi è fuori dal gruppo, e viene considerato diverso). Alla base, c’è sempre la stessa ragione: la sofferenza economica e sociale.

Ho appena parlato di aspettative frustrate. Questo punto merita, a mio avviso, di essere discusso. Le proteste violente a cui stiamo assistendo potrebbero indurre a pensare che l’insoddisfazione e la frustrazione colpiscano solo coloro che appartengono a specifici gruppi (immigrati, classe operaia dal reddito basso, lavoratori di specifici settori, ecc.). In realtà, però, non è così: l’insoddisfazione e il senso di rivalsa sono dilaganti, e colpiscono anche – e molto – coloro che appartengono ai ceti che una volta si definivano piccolo borghesi, e in special modo colpiscono i figli dei piccoli-medi borghesi, i quali si sono ritrovati a entrare in un mondo del lavoro che non garantisce né il successo personale a cui i loro genitori li avevano preparati (e che i loro genitori si aspettavano) né il conseguente successo economico. La perdita di potere di acquisto, l’aumento del costo della vita, le minori opportunità lavorative e le maggiori difficoltà a raggiungere ruoli professionali apicali e altri fattori ben noti hanno colpito indifferentemente tutti i lavoratori, tutti gli esponenti della working class, per usare un termine della sociologia inglese, già dalla generazione X ma in modo drastico e drammatico dalla generazione millenials in poi.

L’insoddisfazione dei borghesi (ci si passi il termine), che genera molta rabbia, livore e senso di rivalsa, è meno facile da captare a livello sociale, semplicemente perché coloro che appartengono alle categorie summenzionato hanno maggiori difficoltà a manifestare a livello collettivo la loro rabbia: molto raramente si sono visti gli esponenti della piccola-media borghesia organizzare cortei, manifestare in modo incisivo se non violento, parlare con una voce sola (il senso di appartenenza a una certa classe oggi è molto meno forte di un tempo, ma è indubbio che la classe operaia si senta, in ultima analisi, più compatta della classe borghese). Ciò non significa, però, che essa possa essere sottovalutata o che non si manifesti latentemente: covata nel proprio animo, essa induce le persone a sviluppare un senso di rivalsa verso gli altri, un senso di prepotenza e di affermazione, a compensazione del non riconoscimento sociale tanto atteso.

La crisi culturale in corso e il dilagare dell’individualismo

Porre l’accento sul contesto economico non è però sufficiente per spiegare la crisi della fiducia che sta colpendo l’Occidente; la crisi è anche culturale. Di per sé, infatti, la decrescita economica – o comunque l’abbassamento degli standard di vita – non è sufficiente a mettere in crisi un sistema politico, come risulta evidente quando si considerano Paesi dove gli standard economici sono più bassi di quelli occidentale ma nei quali si avverte un forte senso di attaccamento allo Stato. Per comprendere l’impatto che le crisi economiche hanno avuto è necessario, allora, considerare in contesto culturale in cui esse si sono manifestate. Questo contesto era – ed è ancora, purtroppo – caratterizzato da un diffuso narcisismo e individualismo (anche se studi recenti sembrano dimostrare un cambiamento in questa direzione), che hanno la loro origine nei fatidici anni ’80 (il famoso edonismo reaganiano), quando il successo individuale e l’affermazione personale furono elevati a principi di vita.

In Italia, il berlusconismo ha poi esasperato questa tendenza, anche se in generale il fenomeno ha investito tutte le economie capitalistiche occidentali. In questo contesto, l’identità è diventata un metro di misura puramente individuale, e il senso di appartenenza a una collettività verso cui si hanno diritti ma anche doveri è venuto a mancare (dopo essere stato forse esasperato nel decennio precedente). Da questo individualismo, le società occidentali non si sono ancora riprese, né sono state in grado di costruire nuove forme di appartenenza. L’identità collettiva è infatti fondamentale per poter interagire in modo sano e costruttivo col prossimo. Essa non deve tradursi in estremismi o in forme di esclusione, ma piuttosto diventare un elemento in grado di far sentire persone provenienti anche da contesti culturali diversi come parte di un’unica comunità. Questa forma “ampia” di identità non si è lontanamente venuta a creare, né in Italia né fuori da essa. Eppure, è necessaria; ma è necessaria – si vuole mettere in evidenza – non solo per gestire la crisi migratoria, ma per tentare di dare una risposta al senso di abbandono che attanaglia le società occidentali. La democrazia e il pluralismo sono importanti, ma non si costruiscono a parole.

[1]: Il poliziotto che ha ucciso il diciassettenne Nahel Merzouk è oggi indagato dalla procura di Parigi: il video dell’aggressione ha in parte smentito la versione data dai poliziotti della vicenda.

Leggi anche In Francia la polizia uccide di Marco Cesario.

CREDIT IMMAGINE DI COPERTINA di Marco Cesario.



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