Mancini, un sopravvalutato di talento

Mancini, vincitore intermittente, abbandona questo Ferragosto la guida della nazionale, proprio a pochi giorni dagli incontri decisivi per qualificarci alla nuova edizione dei giochi continentali. Ma l’incontro tra l'ex ct della nazionale e i petrodollari non è notizia di oggi: la relazione tra i due, infatti, è di lunga data.

Pierfranco Pellizzetti

La carriera milionaria dell’ex calciatore, poi trainer al top, Roberto “Fortunello” Mancini ha spesso incontrato petrolio e petroldollari. Adesso il contratto faraonico da selezionatore della nazionale saudita di cui tanto si parla, ma in passato la sua carriera pallonara conobbe un passaggio importante alla corte interista del petroliere Massimo Moratti e aveva trovato il suo viatico iniziale nell’incontro con il broker dell’oro nero Mantovani e la sua Pontoil. Sempre all’insegna del vecchio detto “meglio nascere fortunato che…”. Paolo Mantovani, impiegato romano nella ditta genovese dell’armatore Cameli, nel 1976 aveva rilevato insieme al petroliere Mario Contini e a Lorenzo Noli la Pontoil – una piccola società con sede a Busalla, in provincia di Genova – per operare nel trading petrolifero con il Kuwait. Siamo nel bel mezzo del dopo guerra del Kippur, con i suoi embarghi energetici imposti dall’OPEC (l’organizzazione dei Paesi produttori di idrocarburi) e le schizofreniche impennate nel prezzo del greggio. Così, nel 1979, una grossa partita di idrocarburi acquistata dalla Pontoil a prezzi di mercato, nel periodo del suo viaggio dalla penisola arabica all’Italia vedeva schizzarne alle stelle le quotazioni, consentendo agli intermediari di Busalla l’utile astronomico di 180 miliardi di lire. Così, in un colpo, solo Mantovani e soci diventano dei veri Paperoni, ma – al tempo stesso – finiscono nel mirino della magistratura per frodi fiscali. Tanto da indurre i beneficiari della speculazione a fuggire all’estero. Mantovani trova asilo a Ginevra, da dove avvia una strategia auto-promozionale per trattare con le autorità italiane il proprio ritorno. Nasce così la favola della Sampdoria, la società di calcio rilevata dal miliardario che punta ad acquistare la meglio gioventù pallonara, per costituire quel team che riuscirà nel miracolo di vincere lo scudetto 1991: Gianluca Vialli, Attilio Lombardo, Luca Pagliuca, Pietro Vierchowod. E – appunto – Roberto Mancini, il cocco del presidente: la prima botta di fortuna del golden boy, un giocatore che non sarà mi un asso, ma certamente un talentuoso solista. Un giocatore da esibizioni, quando i veri campioni – come Vialli – hanno soprattutto cuore e talento per dare il loro meglio negli appuntamenti topici. Mentre Mancini, più bello che utile (allora si diceva “se vuoi divertirti c’è Mancini, se vuoi vincere cerca Vialli”), nei momenti determinanti tende a defilarsi. Come a Wembley 20 maggio 1992, finale di Coppa de Campioni contro il Barcellona, quando la Sampdoria, dopo essere entrata nella storia del calcio italiano vincendo lo scudetto, aveva la possibilità di ascendere a leggenda mondiale issandosi sul trono di campione d’Europa; in quella partita in cui Mancini scompare. Desaparecido, mentre l’altro gemello Vialli si sbatte con grande coraggio ma senza fortuna, colpendo perfino un palo. Non riuscendo per qualche centimetro ad assicurare la vittoria alla sua squadra.

Ma l’equivoco Mancini grande incompiuto (Vialli la Coppa dei Campioni la vincerà cambiando team), amato da chi considera il calcio un fatto puramente estetico, continuerà fino a termine carriera; senza rivivere l’appuntamento storico e non riuscendo neppure a imporsi in nazionale. Dove rifulgeva la stella di un asso vero, quale Roberto Baggio. Dunque né carne né pesce, come continuerà a rivelarsi anche nella nuova carriera da allenatore, ma sempre riuscendo a vendere al meglio la propria immagine. Difatti ci sono due tipi di mister: gli astuti motivatori, gestori degli equilibri di spogliatoio, come lo era Marcello Lippi e oggi José Mourinho, o i visionari del gioco sulla scia Johan Cruijff, da Pepp Guardiola ai nostri Giampiero Gasperini a Roberto De Zerbi. Mancini non inventa calcio e neppure lo insegna: gestisce. Con quella fortuna che spesso lo bacia in fronte. Come nel successo agli europei 2021 alla guida della nazionale italiana, grazie all’improvvisa défaillance di squadre ben più forti della nostra (ad esempio Francia e Belgio) e con vittorie ottenute alla lotteria dei rigori.
Cui ha fatto seguito la débãcle dell’ennesima non qualificazione agli ultimi mondiali per colpa dei campioni della Macedonia (!). Ma sempre con Mancini, vincitore intermittente, capace di gestisce al meglio il proprio capitale di immagine. Non la sua eleganza, vista la scelta opportunistica di abbandonare questo Ferragosto la guida della nazionale, proprio a pochi giorni dagli incontri decisivi per qualificarci alla nuova edizione dei giochi continentali; ovviamente in cambio della una montagna di succitati petroldollari sauditi.
L’abile riposizionamento nel nuovo Bengodi calcistico, che cancella il fatto sportivo ridotto a nient’altro che una operazione di marketing. O magari un Barnum. Per cui uno straordinario venditore di sé stesso – quale Roberto Mancini – va decisamente a pennello. Un sopravvalutato, a misura di questo tempo dominato dalle logiche della speculazione finanziaria.

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CREDITI FOTO Ansa EPA/STRINGER



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