Roma: I lavoratori dello spettacolo pretendono un cambio radicale nella gestione della Cultura della capitale

Le modalità di selezione sulla nomina della direzione del Teatro di Roma hanno sollevato grande indignazione da parte della comunità degli artisti, delle compagnie, delle associazioni e dei lavoratori dello spettacolo della capitale. Questo rappresenta tuttavia soltanto la punta dell’iceberg di un settore culturale in ginocchio, maltrattato, sotto finanziato e precario. Si tratta certamente di un processo involutivo di più decenni a cui hanno contribuito amministrazioni della città di tutti i colori politici, ma che Gualtieri aveva promesso di invertire. Oggi i lavoratori dello spettacolo possono confermare che così non è stato. E pretendono un cambiamento.

Checchino Antonini

“Penso che stante la situazione, aver preservato la capacità di Roma Capitale di esprimere il dg e avere una voce nel Teatro di Roma, nel quadro dei rapporti di forze reali è il miglior risultato possibile”. Roberto Gualtieri, il sindaco di Roma dall’ottobre 2021, difende quello che lavoratori e lavoratrici hanno invece definito il “compromesso compromettente”, o anche l’”accordicchio”.  Si riferiscono alla forzatura di Mibact e Regione nel Cda che ha imposto la nomina di Luca De Fusco alla guida della Fondazione Teatro di Roma con l’avvallo diretto di Giorgia Meloni. Questo succedeva il 19 gennaio. Poi l’amministrazione capitolina è riuscita a “imporre” una figura ancillare, con capacità manageriali, dopo aver gridato al golpe e minacciato di sciogliere una Fondazione dentro cui Roma Capitale è quella che mette più risorse e tutti i conferimenti patrimoniali. Insomma, le mura dei teatri sono dei romani e anche i soldi che li fanno funzionare. Ma la Fondazione è commissariata da due anni e la scelta del nuovo direttore è avvenuta scegliendo tra una terna ricavata dalla commissione durante una seduta di poco più di due ore che ha esaminato 42 risposte al bando. La volta prima, per fare un paragone, ci sono voluti alcuni mesi per scegliere tra sole 19 domande. La designazione reale, evidentemente, è stata formulata altrove e il nome di De Fusco circolava proprio dal 2021, alla vigilia del commissariamento. Un percorso segnato dall’opacità e dalla spartizione politica che sta scatenando il forte dissenso della comunità artistica.
A far saltare una specie di accordo sul nome di Ninni Cutaia tra il sindaco e il ministro Sangiuliano è stato l’intervento a gamba tesa di Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura della Camera ed esponente di FdI, per imporre De Fusco, 67 anni, regista molto conosciuto perché con lo stesso metodo sarebbe stato già imposto allo Stabile di Catania e prima ancora a quello di Napoli. Qui a Roma guadagnerà 150mila euro l’anno (più del doppio di quanto prendeva a Catania, poco meno dello stesso sindaco), stando al contratto firmato con il vicedirettore della Fondazione TdR che gestisce Argentina, India, Torlonia e quel Teatro Valle, occupato dal giugno 2011 all’agosto 2014, che fu una botta di vita, in un centro storico desertificato, ma che da dieci anni aspetta di essere riaperto. Intanto, gli spazi indipendenti vengono chiusi, i progetti di residenze e di produzione artistica sospesi, la logica dei bandi mette a repentaglio la continuità delle esperienze e le assegnazioni dirette e sproporzionate alterano l’ecosistema culturale. Su questo punto ci torneremo in seguito.
“Dal Teatro Valle Occupato in poi non è successo nulla, nulla di buono. Le sale nate da percorsi della post avanguardia, soprattutto in centro, non esistono più per una scientifica cecità della politica romana”. Giorgina P., drammaturga, vincitrice del premio Ubu e fondatrice del Collettivo Angelo Mai, ora circolo Arci, teme che questa vicenda annunci “l’inizio di una fase “nera” su un ambiente teatrale sfiancato”. Pensa “alla mancanza di un reddito che garantisca l’intermittenza congenita del loro lavoro”, alla precarietà endemica di Teatro di Roma, con un tasso del 40% dei dipendenti precari e i servizi in parte o totalmente esternalizzati, ma anche al fatto che sono in scadenza altre direzioni, a cominciare dalla Biennale di Venezia. “In Italia – dice ancora – i teatri importanti sono diretti solo da uomini, perlopiù registi che spendono la maggior parte dei soldi per produrre i propri spettacoli”.
Questo è uno dei nodi sollevato dalla comunità di teatranti, addetti ai lavori, tessuto associativo e pubblico, che dalla mattina del 20 gennaio è mobilitata sulla questione, convinta che il “teatro sia di tuttз”. Artiste e artisti chiedono, si legge in un appello promosso da Matteo Garrone, “una nomina ampiamente condivisa di un figura competente che possa guardare al bene del Teatro e allo sviluppo culturale della città  di Roma in tutte le sue componenti. Una figura con una visione ampia ed inclusiva, che possa garantire solidità, pluralismo, una profonda conoscenza della macchina istituzionale, del contesto nazionale e internazionale e del desertificate e fecondo territorio romano”. Anche l’Assemblea Costituente dei Lavorat_ dello Spettacolo ha sottolineato che “cambi di governance, commissariamenti, trasformazioni istituzionali mal gestite che avvengono nella più completa opacità, alimentando quello che era già un feroce sistema di precarietà, producono “gravi conseguenze in tutto il sistema culturale cittadino e nazionale. Non solo non si valorizzano le vivissime esperienze di autorganizzazione, modelli e pratiche innovative, di spazi indipendenti e informali, di network di artisti, ma anzi le si attaccano, le si cancellano. Se Roma è riconosciuta artisticamente a livello nazionale e internazionale, è per questa biodiversità”.
Il primo febbraio Gualtieri ha finalmente incontrato in Campidoglio questa comunità, dentro una sala gremita all’inverosimile – più di 200 persone e altre 150 rimaste fuori o a seguire in streaming –  e presidiata dalla digos, una presenza costante in questa vicenda. “La polizia non l’abbiamo certo chiamata noi, ve lo posso garantire – ha spiegato in assemblea – ho chiesto ripetutamente di consentire l’assemblea dentro il teatro, ma non è un potere del sindaco dare ordini alla Digos. E’ chiaro che i luoghi pubblici, se c’è una segnalazione, vanno tutelati. Altro è l’eccesso di procedura di identificazione per dei volantini. Lo trovo improprio e sbagliato”. Il sindaco fa riferimento a due episodi: il primo, di qualche sera fa, quando un cordone di polizia ha impedito ai lavoratori dello spettacolo in protesta di entrare al Teatro Argentina dove nel frattempo era in corso il cda. Il secondo proprio la sera prima al Teatro India, altra sala che rientra nella rete del Teatro di Roma: sui social sono circolate foto e testimonianze su poliziotti che avrebbero identificato chi, all’entrata del teatro, distribuiva dei volantini con le motivazioni della protesta. “È allucinante che prima ci chiamino per difendere il teatro da un blitz definito squadrista e adesso ci portate la polizia qui davanti», ha commentato davanti all’Argentina, lo scrittore Christian Raimo, uno degli animatori della mobilitazione.
Il sindaco, due giorni dopo, ce la mette tutta per negare che sia stata «una resa vergognosa”. Però, tra “rassegnarci” o “fare la guerra termonucleare globale” fino a “sciogliere” la Fondazione è stata imboccata la via del compromesso con l’immediata caduta della disponibilità da parte di Cutaia.
E ora che ne sarà di questa mobilitazione permanente di compagnie, associazioni, circoli, lavoratrici e lavoratori? Insomma, l’assemblea di ieri è l’inizio di un confronto tra loro e l’amministrazione oppure un fuoco di paglia? Vito Scalisi, presidente di Arci Roma, suggerisce nel suo intervento che l’assemblea venga riconosciuta dalle istituzioni per svolgere il ruolo di controllo dell’operato di una Fondazione il cui statuto è considerato tutt’altro che perfetto. “Nel passaggio da Associazione a Fondazione del Teatro di Roma, è stato prodotto uno statuto inadeguato e inefficiente, che ha avuto la sola funzione di renderne ancora meno stabile la gestione: chi si è occupato di redigerlo? E perché la comunità artistica non è stata interpellata in nessuna forma? E poi, che fine ha fatto l’Assessore alla Cultura?”.
Se la scena artistica a Roma sopravvive nonostante le sue istituzioni lo si deve proprio al tessuto associativo, di realtà di promozione culturale che operano nei territori mettendosi in rete.
Un percorso partecipato che coinvolga la città potrebbe essere sabbia negli ingranaggi della macchina da guerra di Fratelli d’Italia nella sua marcia verso l’occupazione di quante più poltrone possibili e riattiverebbe un circuito culturale mortificato da una gestione deludente delle politiche culturali di questa città, a partire dall’Estate Romana. Una china che è discendente da una ventina d’anni in cui Roma ha sperimentato ogni colore di governo ma che il programma elettorale di Gualtieri aveva giurato di invertire.
Ma il commento a caldo dell’Assemblea dei teatranti è pessimista “Le risposte che abbiamo ricevuto durante l’incontro sono state evasive e prive di credibilità.. È invece urgente organizzare una mobilitazione culturale e politica, prima che le destre saturino qualsiasi spazio di espressione e trasformazione”. La mobilitazione non si ferma e il prossimo appuntamento è domenica 4 febbraio a Spin Time, spazio occupato in via S.Croce in Gerusalemme, per elaborare collettivamente altri modelli culturali: “vogliamo tutt’altro, e siamo prontз a costruirlo”.
Ma un altro macigno è caduto sugli operatori culturali della città: ad alterare l’ecosistema sono ancora le assegnazioni dirette, e sproporzionate, alla Fondazione Piccolo America. Ulteriori 250 mila euro di contributi (pari a tre volte l’intero bilancio culturale annuale di gran parte dei municipi di Roma) per l’edizione 2024 di “Cinema in Piazza” e l’assegnazione diretta di tre arene. Una disparità di trattamento troppo grande se paragonata all’iter dei bandi pubblici, secondo Arci Roma (80 circoli per circa 90mila soci in tutta la provincia) che ha promosso una lettera aperta a Gualtieri e Miguel Gotor, assessore alla Cultura, per riequilibrare le regole: vanno rivisti i tempi di assegnazione degli spazi, gli impegni di spesa e i criteri di accesso ai fondi. La missiva che è stata consegnata al sindaco durante l’assemblea del 31 gennaio ha raccolto decine di adesioni tra reti (come il Forum del Terzo settore del Lazio), operatori e associazioni. Altro disequilibrio enorme sta nei tempi di assegnazione. L’ultimo bando dell’Estate Romana – il primo della giunta Gualtieri – è stato assegnato a giugno a fronte di iniziative che dovevano inaugurarsi lo stesso mese, mentre in questo caso fondi e assegnazioni di spazi arrivano in netto anticipo per permettere di comporre un cartellone di qualità con tempi adeguati. “Se gennaio è un tempo congruo per una manifestazione cinematografica, che dire di eventi artistici che devono confermare impegni contrattuali con le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo di rilievo nazionale e internazionale?”, chiede la lettera che continuiamo a leggere: “Le regole dei bandi per accedere agli anticipi inoltre – lo sa bene chi partecipa – sono regole di rendicontazione rigidissime e severe ed è lecito chiedersi se valgono le stesse in caso di assegnazioni dirette. Inoltre come gli operatori culturali sanno: le erogazioni di fondi nel caso di eventi assegnati tramite bando subiscono tagli cospicui e le erogazioni non arrivano prima di un anno; l’anticipo è previsto solo sottoscrivendo fideiussioni spesso troppo onerose a cui molti operatori non possono accedere obbligandoli ad anticipare l’intera somma.
Aggiungiamo che questa disparità appare ancora più lampante se si guarda alla quantità di spazi sociali e culturali, autogestiti collettivamente, molti assegnati con la delibera 26 del 1995, la cui attività si basa per lo più sul lavoro volontario e che da anni animano la città di Roma. Non solo infatti, nella maggior parte dei casi, non hanno mai ricevuto alcun finanziamento pubblico (figuriamoci diretto!), non solo non sono stati sostenuti dalle amministrazioni cittadine che si sono succedute, ma, al contrario hanno subito repressioni in varie forme dalle stesse. Un vero e proprio paradosso”.
Non è una “guerra al Cinema America” come maliziosamente titolano i giornali, è un’ennesima richiesta di ascolto. «Gotor batta un colpo», conclude Scalisi.

CREDITI FOTO: ANSA / MASSIMO PERCOSSI



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