Dal Mediterraneo ai Balcani

La tragedia dei migranti che muoiono nel gelo della rotta balcanica per raggiungere l'Europa. Quanti cadaveri dobbiamo ancora contare prima di cambiare le politiche sull’immigrazione?

Velania A. Mesay

Bihać. João e Mamadou camminano dandosi la mano per non scivolare sulla neve. Fanno qualche passo, cadono, poi si rialzano aggrappandosi uno al braccio dell’altro. Mamadou avanza con più difficoltà di suo cugino João perché non indossa scarpe adatte alle temperature invernali, ma solo delle ciabatte da spiaggia dalle quali fuoriescono le dita dei piedi, ormai congelati a forza di affondarli nella neve. I due faticosamente raggiungono il primo sentiero sterrato che conduce in città, lasciandosi alle spalle le montagne che separano Velika Kladuša, piccola cittadina bosniaca nel cantone di Una-Sana, dalla Croazia. È la terza volta che tentano il “game” senza successo: la polizia croata, anche oggi, li ha respinti indietro. “I poliziotti croati hanno preso il mio telefono, l’hanno messo dentro l’acqua del fiume, gli hanno tolto la simcard e me l’hanno restituito così” dice Mamadou furioso, protraendosi in avanti per mostrarci il cellulare ormai non funzionante. “Voglio chiedere asilo in Europa, nient’altro. Perché ci trattano così?” si chiede l’uomo che, mentre parla, ha gli occhi fuori dalle orbite a causa della rabbia, della stanchezza e della frustrazione. I due cugini vengono dalla Guinea Bissau; Mamadou, il più grande tra i due, era un militare nel suo Paese. L’unico oggetto che custodisce gelosamente è proprio una carta d’identità che lo dimostra. Per mostrarcela apre la cerniera della sua giacca, fruga nella tasca interna, finalmente la trova e ce la porge, per poi richiudersi frettolosamente il cappotto sotto il quale veste solo una canottiera. Nella foto del documento porta un basco rosso che gli pende leggermente a sinistra, sorride e sembra avere vent’anni in meno. Ma la foto, dice, è stata scattata pochi anni fa. Mamadou racconta di essere perseguitato in Guinea e che ha preso la decisione di fuggire dal suo Paese dopo che sua madre e suo fratello sono stati assassinati. Sapeva che il prossimo a finire così avrebbe potuto essere proprio lui ed è per questo che ha intrapreso il lungo viaggio verso l’Europa insieme a suo cugino. Ma ora non ce la fa più, afferma di essere esausto e che dopo questo ennesimo pushback vorrebbe solo tornare nel suo Paese. “Preferisco morire con un colpo in testa lì invece che morire di fame in mezzo alla neve qui in Bosnia”.

Verrebbe da chiedersi se forse è proprio questo lo scopo dei violenti respingimenti: instillare un senso di sfiducia nell’Europa, nella possibilità di essere raggiunta e ivi chiedere protezione internazionale, tanto da spingere coloro che cercano salvezza ad arrendersi e tornare indietro; annientare psicologicamente e fisicamente coloro che bussano alle porte di questo continente, fino a convincerli che forse, tutto sommato, stavano meglio nei loro paesi d’origine.
Ebbene se questo fosse il tentativo, i dati fotografano, al contrario, un’altra situazione: l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) in Bosnia dal 2018 ad oggi ha favorito il rimpatrio volontario di soli 1331 migranti. Difficilmente chi ha non ha altro posto dove poter tornare ed ha già percorso migliaia di chilometri per poter arrivare in un luogo sicuro, getta tutti i sacrifici all’aria per fare marcia indietro.

L’Europa, chiusa a riccio nelle politiche miopi di esternalizzazione delle sue frontiere e contrasto “all’immigrazione illegale” – quando c’è da chiedersi quale sarebbe la via legale per entrare in un continente sempre più blindato e quali sono, tra l’altro, le responsabilità dell’Occidente nei Paesi dai quali le persone fuggono – non trova altro rimedio che rendere dei viaggi un’Odissea senza fine creando un percorso ad ostacoli dove la vita perde di significato e di valore, trasformandosi in mera sopravvivenza. A quale scopo vengono queste politiche se non fagocitare istinti razzisti sopiti o meno sopiti di una parte della nostra popolazione? Una crociata propagandistica volta a distrarre dai problemi reali che in anni di crisi come quelli che stiamo vivendo, istiga i poveri a combattere i più poveri, divenuti tristemente capro espiatorio di tutti i mali. Un nemico facile, una propaganda semplice che sta gettando il seme della discordia che minerà a lungo il quieto vivere, la pace e la convivenza nel continente. Questo sarà il risultato se si continuerà a sottolineare sempre più questa differenza tra il “noi” e il “loro”, se non si apriranno dei canali di immigrazione legali e se non si restituirà dignità alle persone. È questo l’unico antidoto per fermare i trafficanti di esseri umani, per mettere fine alle morti in mare e allo strazio dell’attesa negli hotspot che costellano il territorio europeo. Di quanti altri cadaveri abbiamo bisogno? Quanti altri morti annegati nel mare, o di ipotermia nelle frontiere più a nord, dovremo contare? E, visto che la migrazione è fenomeno ininterrotto dall’origine dell’umanità, quando finalmente si cambierà azione politica e si inizieranno a normalizzare questi flussi ci chiederemo: valeva la pena far morire tutti gli altri?

João e Mamadou sono ancora vivi, nonostante le temperature rigide e le violenze subite, sono riusciti a ripercorrere a ritroso le montagne dalla Croazia alla Bosnia dopo essere stati brutalmente respinti. Potevano rimanere lì in mezzo alla neve, senza nessuno che li cercasse o si accorgesse della loro assenza, com’è successo a tanti altri che hanno percorso lo stesso cammino e di cui si è perso traccia. Molti corpi sono stati abbandonati in quelle montagne senza un’identificazione e senza una degna sepoltura perché la terra è ghiacciata e “molti di noi devono proseguire il game e non possono tornare indietro”.

Non solo sulla rotta balcanica, non solo nel Mediterraneo

In Polonia lo scorso 12 febbraio una donna ventottenne di origini etiopi è stata trovata morta. I media locali riportano come la giovane aveva attraversato il confine che separa la Bielorussia dalla Polonia insieme a suo marito e ad un altro membro della famiglia. Durante il tragitto però qualcosa va storto, lei si sente male, si accascia a terra e gli altri due familiari vanno in cerca di qualcuno che possa aiutare la donna. Ma incontrano solo la polizia di frontiera polacca che li rispedisce in Bielorussia e non avvia nessuna ricerca per la ricerca della giovane. Ad attivarsi è una ONG locale che mobilita la polizia che infine dopo alcuni giorni di ricerca troverà la donna ormai senza vita nella foresta dove era stata lasciata. Accanto a lei il vangelo e l’immagine di un santo. Resta solo a noi immaginare le ore che l’hanno separata dalla morte. Nel dolore, nel freddo pungente, nella solitudine e nella speranza di che qualcuno la soccorresse. Una speranza racchiusa solo nelle preghiere. La stessa disperata speranza alla quale si saranno aggrappate le persone naufragate a Crotone pochi giorni fa.
Di quanti altri martiri ha bisogno l’Europa per aprire gli occhi?

 

 

Foto Facebook | Barbara Balzerani

 



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