In Russia la campagna militarista si combatte sui corpi delle donne

Decenni di politiche repressive nei confronti delle donne e della comunità LGBT+ sono ora portate agli estremi in tempo di guerra.

Margherita Puca

C’è un passaggio di una recente intervista che il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha rilasciato all’agenzia di stampa di stato cinese Xinhua che rende del tutto evidente come il conflitto russo-ucraino si muova sulle basi di un disegno ultraconservatore a lungo termine: “La nostra Operazione militare speciale contribuisce al processo di liberazione del nuovo mondo dall’oppressione neocoloniale dell’Occidente, intrisa di razzismo e di un complesso di superiorità”. È nello snodo epocale di questa innegabile crisi del sistema geopolitico internazionale che si intreccia una battaglia di ben più ampia portata. La “lotta per ristabilire l’ordine naturale”, attuata dal Cremlino attraverso decenni di politiche repressive nei confronti delle donne e della comunità LGBT+, portata agli estremi in tempo di guerra e funzionale ad alimentare il fuoco della propaganda nazionale.

La progressiva e progressista apertura del mondo occidentale nei confronti delle minoranze e dei loro diritti – ciò che Putin definisce la “confusione dei valori” – è la base della retorica ideologica usata dal Cremlino per tracciare la linea di demarcazione tra la Russia e l’Occidente. Lo dimostra un passaggio del discorso con cui il presidente russo, lo scorso 24 febbraio, ha annunciato l’invasione dell’Ucraina, in cui sostiene come l’Occidente non abbia mai smesso di distruggere i valori tradizionali della Russia e di imporre nel tessuto sociale del paese “pseudo valori” pronti a corrodere la popolazione; comportamenti che porterebbero alla “degradazione” e alla “degenerazione” in quanto contraddittori rispetto alla natura umana. Da questa prospettiva, il conflitto in Ucraina rappresenta la prosecuzione sul campo di battaglia di politiche profondamente identitarie e repressive nei confronti delle minoranze.

La natura maschilista e aggressiva dei nazionalismi è costruita su una dicotomia di genere, che inquadra gli uomini come soggetti performanti e combattenti e le donne come entità subordinate: se da un lato corrispondono al tradizionale canone di individui bisognosi di protezione, dall’altro sono sempre oggetto di uno strumentale controllo sui propri corpi e sulle proprie vite.

In Russia le maglie dell’ultra conservatorismo, in grado di stringersi o allentarsi in base alle esigenze socioeconomiche del paese, di fatto non rendono possibile una vera autodeterminazione delle donne. Da questa prospettiva, il diritto alla salute, e in particolare il diritto all’aborto, è un esempio emblematico: nel paese la regolamentazione a tutela dell’interruzione di gravidanza non ha mai raggiunto un’elaborazione sistematica ed è costantemente sotto attacco. Basti pensare alla proposta di legge presentata nel 2015 che chiedeva l’esclusione dell’aborto dal sistema sanitario nazionale, ai fini di renderlo un intervento a pagamento, riducendo di fatto la sua accessibilità alle fasce più agiate della popolazione. Per le autorità politiche, infatti, questo diritto è sempre stato una questione estremamente rilevante non solo dal punto di vista economico ma anche sociale, elemento di misura del grado della moralità della società.

Con il proseguo del conflitto in Ucraina, la mancanza di reali prospettive di pace e l’esigenza di continuare ad alimentare la propaganda nazionalista, hanno assunto un ulteriore volto: quello del militarismo di stato. La retorica antiabortista è stata utilizzata dalle autorità russe come pretesto per promuovere le nascite del paese ai fini di rafforzare le fila dell’esercito nazionale di domani, come dimostrato da alcuni recenti slogan propagandistici che invitano giovani donne a proteggere la vita, affinché possano crescere grandi uomini pronti a proteggerle un domani. Un’impronta pericolosa che continua a calpestare i diritti delle donne all’interno di schemi di potere maschili.

 

(credit foto EPA/YURI KOCHETKOV)



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