Invasione russa e sanzioni economiche

Le sanzioni economiche sarebbero davvero stringenti se la Russia avesse relazioni con i soli Paesi che le applicano. Il regime di Putin potrebbe aggirarle non solo ricorrendo a pratiche autarchiche, ma soprattutto rinsaldando i legami con quella parte di mondo che non le applica.

Pompeo Della Posta

Secondo i fautori incondizionati della globalizzazione, i legami economici fra la Russia e il resto del mondo avrebbero dovuto essere sufficienti ad evitare l’invasione dell’Ucraina, perché un conflitto avrebbe determinato una significativa riduzione dei benefici derivanti alla Russia dall’apertura economica. Evidentemente altre ragioni, quindi, hanno motivato e reso possibile il conflitto armato.

La grande maggioranza degli osservatori e dell’opinione pubblica del mondo occidentale e sviluppato ritiene che Putin abbia il solo obiettivo di restaurare l’antica potenza sovietica o addirittura zarista e che quindi la sua azione meriti una pari risposta armata attraverso il sostegno che i paesi occidentali dovrebbero fornire all’Ucraina, oltre alla risposta rappresentata dall’imposizione di sanzioni economiche. Una minoranza è invece disposta a dare credito alla possibilità che la mossa di Putin (peraltro fortemente condivisa in patria e sostenuta perfino dal patriarca della Chiesa ortodossa russa) sia stata determinata, paradossalmente, dalla stessa scelta ucraina di richiedere la protezione della Nato nel timore di una aggressione russa. Si tratterebbe di qualcosa di ben noto negli studi di relazioni internazionali, che va sotto il nome di “security dilemma” (si veda l’illuminante scritto di Walt) e che ha molto a che vedere con quello che la teoria economica, utilizzando lo strumento della teoria dei giochi, definisce “equilibrio autorealizzantesi” (“self-fulfilling equilibrium”) (si veda, ad esempio, il mio articolo su Euractiv del marzo scorso). Questo secondo gruppo, che potremmo definire “giustificazionista” (ma che non per questo ritiene che l’invasione di Putin sia meno grave e meno tragica: anche chi ha delle possibili ragioni passa dalla parte del torto quando intende difenderle in maniera sproporzionata o illegale), ha al proprio interno anche chi, richiamandosi ai padri nobili della nonviolenza, come il Mahatma Gandhi o Martin Luther King Jr., e in Italia Aldo Capitini, Danilo Dolci, Norberto Bobbio, ritiene che la risposta armata non faccia altro che alimentare il conflitto; e raccoglie anche chi è scettico perfino sul ruolo delle sanzioni economiche applicate da molti paesi occidentali contro la Russia.

La questione della difesa armata è particolarmente complessa, ma esiste un’evidenza statistica che mostra, in maniera apparentemente sorprendente per il pensiero corrente, come nel periodo 1900-2006 la lotta nonviolenta abbia avuto successo un numero quasi doppio delle volte in cui ha avuto successo una resistenza armata (si veda il lavoro di Stephan e Chenoweth). Va però aggiunto che una difesa nonviolenta non si improvvisa e le sue probabilità di successo dipendono dal verificarsi di molteplici condizioni, come ci illustra l’impegnativo lavoro di Gene Sharp. Questo vuol dire che dovremmo anche domandarci quanto sia davvero praticabile attuarla ora in Ucraina e quante e quali condizioni potrebbero dover essere verificate affinché la popolazione ucraina vi aderisca. Allo stesso tempo, potrebbe sembrare assurdo suggerire agli ucraini oggi una resistenza nonviolenta, quando negli anni passati nessuno si è mosso per indurli a ripensare la loro scelta di ricorrere alla protezione armata della Nato, che sarebbe alla base dell’invasione russa.

Come anticipato, c’è anche chi obietta che le stesse sanzioni economiche possano essere inefficaci, visto che la ratio che ne sottende l’applicazione sposa la fallace impostazione “mercatista” sopra ricordata. È vero che il blocco delle riserve in dollari detenute all’estero dalla Banca centrale russa, riducendo la possibilità di intervento stabilizzatore sul mercato dei cambi, ha determinato un pesante deprezzamento del rublo nei confronti del dollaro e dell’euro (intorno al 30%). E che il costo dei beni importati in Russia aumenta in pari misura, aggravando i conti con l’estero e rendendo, fra le altre cose, più oneroso il rimborso dei prestiti in valuta estera ricevuti dalla Russia. Questo rende più probabile un default russo sul proprio debito pubblico (ma quando il debito è grande esiste il ben noto problema del too big to fail: se il debitore non ripaga il suo debito, chi risulta davvero penalizzato alla fine è il creditore che non rivede i propri soldi…). Inoltre, i beni mobili (ad esempio i mega-yacht) ed immobili (ad esempio le ville e gli appartamenti di lusso in località turistiche o urbane di alto pregio) di alcuni oligarchi vicini a Putin e di suoi familiari sono stati posti sotto sequestro (lasciando però al riparo da restrizioni le ricchezze nascoste nei paradisi fiscali). Tutto questo dovrebbe far comprendere agli oligarchi che la mossa di Putin non è nel loro interesse e dovrebbe quindi creare le condizioni per un rovesciamento prossimo del suo regime. Vedremo se sarà così.

Le sanzioni economiche, però, sarebbero davvero stringenti solo se la Russia avesse relazioni con i soli paesi che le applicano e se non potesse trovare alternative ad essi. L’effetto, ancora una volta paradossale, soprattutto per un paese dalle grandi dimensioni e quindi dalla potenziale grande diversificazione delle dotazioni fattoriali, come la Russia, potrebbe essere però quello di alimentare le spinte protezioniste ad autarchiche (ne sappiamo qualcosa noi italiani, se torniamo con la mente al ventennio fascista), nel tentativo di sostituire con la componente dei consumi, degli investimenti e della spesa pubblica interni ciò che si perde dal saldo della bilancia commerciale. Certo, la limitazione o interruzione da parte dei paesi occidentali di esportazioni di prodotti intermedi o finali ad alto contenuto tecnologico verso la Russia potranno nel breve periodo indebolirne la struttura produttiva, ma non è escluso, anzi è altamente probabile, che essa si rivolga ad altri partner, prima fra tutti la Cina, anche come sbocco per le proprie esportazioni, da cui dipendono le proprie entrate. E al di là di questo, dovremmo domandarci anche se la minaccia di una restrizione delle importazioni occidentali di beni energetici, sia davvero credibile. Gli Stati Uniti hanno avuto gioco facile nel decretare l’eliminazione delle importazioni di gas russo, visto che quest’ultimo copriva appena l’8% del fabbisogno americano. Diverso è il discorso per i paesi europei, la cui dipendenza raggiunge quote significative che si avvicinano al 40%. Non è un caso che i paesi europei non siano stati ancora in grado di annunciare il bando alle importazioni di petrolio e gas russo.

Non si può non tenere conto, quindi, del fatto che la Russia possa aggirare le sanzioni economiche imposte contro di lei non solo ricorrendo a pratiche autarchiche, ma soprattutto rinsaldando i legami con la metà del mondo, perlopiù rappresentata dai paesi in via di sviluppo ed emergenti, che resta tuttora dalla sua parte. Si parlava tempo fa dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e del loro ruolo di contrasto all’egemonia del mondo occidentale sviluppato: non è un caso che proprio quei quattro paesi, insieme a molti altri dei paesi in via di sviluppo o meno sviluppati, non abbiano preso posizione netta contro la Russia nel consesso delle Nazioni Unite.

L’imposizione di dure sanzioni economiche contro la Russia, quindi, potrebbe produrre il risultato indesiderato di incoraggiare ulteriormente la separazione del mondo in due blocchi, ricreando nei fatti quel clima da guerra fredda che forse un po’ troppo frettolosamente avevamo salutato nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino. Davvero è questo il risultato a cui aspiriamo?

Se quanto precede ha un senso, allora, si fa ancora più pressante la caparbia ricerca del dialogo, anche se può sembrare assurdo perseguirlo con chi ha compiuto un’aggressione. Non dico che sia facile, né che sia la cosa che verrebbe più spontaneo pensare di fare. Ma è l’unica cosa che, a mio avviso, un approccio “realista” al problema suggerisce.

 



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