La pessima salute di ferro del governo progressista spagnolo

L’esecutivo presieduto da Pedro Sánchez è riuscito a realizzare buona parte dell’agenda progressista annunciata due anni fa. L’economia però non cresce come sperato e la navigazione del governo deve fare i conti con numerosi ostacoli.

Steven Forti

Nel gennaio del 2020 nasceva in Spagna il governo di coalizione formato dal Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e Unidas Podemos (UP). Qual è il suo stato di salute a metà legislatura? Nonostante le difficoltà e le tensioni dovute al contesto segnato dalla pandemia e a una destra che non ha mai smesso di fare un’opposizione dal sapore trumpista, possiamo affermare, in primis, che l’esecutivo presieduto da Pedro Sánchez è riuscito a realizzare una buona parte dell’agenda progressista annunciata due anni fa e, in secondo luogo, che, a meno di imprevisti, arriverà fino a fine legislatura. Fino a ora, infatti, non solo la coalizione di governo ha tenuto, al di là delle fisiologiche divergenze di vedute su alcune questioni tra socialisti e UP, ma si è confermato anche l’appoggio parlamentare delle forze regionaliste e nazionaliste che hanno permesso la formazione dell’esecutivo. Una maggioranza eterogenea e composita che è cosciente di essere l’unica alternativa al Partido Popular (PP) e a Vox. È bene ricordare, infatti, che Sánchez governa in minoranza in un Congreso quanto mai frammentato.

A riprova di tutto questo, a fine dicembre è stata approvata la nuova legge di bilancio – in cui sono inclusi anche 27 miliardi dei 72 a fondo perduto assegnati alla Spagna dal Next Generation EU – che prevede un livello record di spesa e importanti misure sociali. È la prima volta da parecchio tempo, tra l’altro, che il Parlamento vara per due anni consecutivi una finanziaria. Ma l’attività legislativa dell’esecutivo è stata notevole. Dopo la riforma delle pensioni e la legge sui riders, si è approvata infatti, grazie a un inusuale accordo che ha coinvolto sia i sindacati che gli industriali, anche la riforma del lavoro che implica la deroga, per quanto parziale, della controriforma neoliberista approvata da Mariano Rajoy nel 2012. A tutto questo si sommano una trentina di altre leggi che vanno dal reddito minimo vitale all’eutanasia, dall’ampliamento delle misure contro le violenze di genere al mutamento climatico e alla transizione energetica, dalla memoria democratica all’uguaglianza delle persone trans e i diritti LGTBI. In sintesi, l’afflato progressista dell’esecutivo è più che palpabile e abbraccia sia la causa dei diritti che quella delle disuguaglianze.

Detto questo, non sono tutte rose e fiori per le sinistre iberiche. In primo luogo, come in tutta Europa, la pandemia non sembra scemare con il picco di contagi dovuto alla variante omicron. È pur vero che la mortalità è molto più bassa rispetto all’anno scorso, anche grazie al successo della campagna di vaccinazione con oltre l’80% della popolazione con due dosi. E che, a differenza di altri paesi, in Spagna ora vi sono poche restrizioni: non è stato istituito nessun Super Green Pass e il Green Pass non è necessario in tutte le regioni e si limita in genere solo alla ristorazione e agli ospedali. Nemmeno si è sviluppato un movimento No Vax più o meno organizzato, come in Austria, Olanda, Italia o Francia.

Però, per quanto l’occupazione abbia superato per la prima volta i livelli del 2007, l’economia non cresce come si sperava: dal 7% previsto dal governo all’inizio dell’anno si è passati, secondo le ultime stime del Banco de España, al 4,5% per il 2021. Per di più, a dicembre l’inflazione è arrivata al 6,7% e le bollette di luce e gas hanno raggiunto i massimi storici, nonostante gli interventi dell’esecutivo per mitigare la spesa. Tutto ciò preoccupa nel Palacio de la Moncloa perché sull’uscita dalla crisi – un’uscita che dev’essere “giusta” socialmente, come ripete spesso Sánchez – il governo punta in vista del 2023, anno elettorale per eccellenza, con le amministrative a maggio e le politiche a novembre.

In secondo luogo, la navigazione del governo deve fare i conti con numerosi ostacoli. Da una parte, le destre, come si diceva, sono sulle barricate fin dall’inizio della pandemia e il PP ha finito per accettare, dopo qualche tentennamento, il discorso dell’ultradestra di Vox. Gli accordi bipartisan sulle riforme istituzionali sono di conseguenza molto difficili o semplicemente impossibili, come nel caso del rinnovo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, il cui mandato è scaduto da oltre tre anni. Dall’altra, il 2022 si annuncia come un anno segnato da alcuni appuntamenti elettorali inattesi che polarizzano ancora di più l’ambiente. Il 13 febbraio si voterà anticipatamente in Castiglia e León – dopo la rottura della coalizione tra PP e Ciudadanos – e prima o dopo l’estate toccherà all’Andalusia, regioni entrambe governate dai popolari che sperano in una doppia vittoria per indebolire Sánchez e spianare la strada della Moncloa a Casado.

In terzo luogo, sia i socialisti che Unidas Podemos stanno vivendo una fase di riconfigurazione interna che potrebbe avere conseguenze sia sulla stabilità del governo sia sul futuro della coalizione. In estate, dopo l’approvazione degli indulti per i dirigenti indipendentisti catalani, Sánchez ha sostituito ben sette ministri socialisti. Non si è trattato di un semplice rimpasto, né solo del tentativo di ridare nuovo vigore all’esecutivo, fiaccato da un anno e mezzo di pandemia, ma soprattutto di un rafforzamento dell’apparato del partito e di una svolta centrista, confermata dal congresso del PSOE tenutosi a ottobre a Valencia dove si è fatto rivedere anche l’ex premier Felipe González, da sempre molto critico con Sánchez.

Per quanto riguarda Unidas Podemos la situazione è ben diversa. Dopo l’abbandono della politica da parte di Pablo Iglesias, la coalizione sta cercando di ristrutturarsi attorno alla figura di Yolanda Díaz, attuale ministra del Lavoro. Díaz, proveniente dal Partido Comunista de España, è una delle ministre più apprezzate dall’opinione pubblica: la riforma del lavoro sarebbe la ciliegina sulla torta del suo operato, sempre che passi l’ultimo scoglio dell’approvazione in Parlamento. Da tempo, si sta lavorando alla costruzione di una piattaforma laburista che ricucisca le fratture che si sono aperte in questi ultimi anni nel campo della nuova sinistra, non solo rafforzando le relazioni tra Podemos, Izquierda Unida e i Comuns di Ada Colau, ma anche recuperando Más Madrid, la scissione capitanata da Íñigo Errejón nel 2019, e i regionalisti valenzani di Compromís. La proposta è senza dubbio accattivante e potrebbe essere un successo elettoralmente parlando, ma le difficoltà non sono poche.

In sintesi, in mezzo a marosi e tormente, il governo Sánchez gode di una pessima salute di ferro. A destra, oltre a tacciare l’esecutivo come illegittimo, lo si considera una specie di regime chavista in salsa spagnola. A sinistra lo si critica per non essere abbastanza coraggioso o essersi venduto al centrismo. Probabilmente la verità, come spesso succede, sta nel mezzo: un governo progressista di minoranza che fa quel che può e quel che riesce, ma con la bussola chiaramente orientata a sinistra. Non è poco per i tempi che corrono. Vedremo quel che succede ora nella seconda metà della legislatura.

(Credit Image: Eduardo Parra/Contacto via ZUMA Press)



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