Salvare o abbandonare Agamben?

Donatella Di Cesare vorrebbe salvare il pensiero di Agamben dalla deriva presa con le sue tesi sul Covid. In realtà, esse sono l’implicazione più coerente di tutto il suo percorso.

Federico Zuolo

Sull’ultimo numero dell’Espresso, Donatella Di Cesare ha scritto un articolo in cui prende le distanze dalle posizioni di Agamben sul Covid, pur rivendicandone l’eredità. La cosa interessante di questo pezzo non è tanto la critica, pur condivisibile, della deriva di Agamben (nelle parole di Di Cesare, negazionista, complottista, antiscientifica, coincidente con posizioni di ultradestra) quanto il quadro entro cui si inserisce, ovvero l’inizio e la fine del suo discorso. All’inizio Di Cesare, pur distanziandosi da Agamben, riconosce appieno il suo magistero intellettuale; alla fine lancia ad Agamben quella che dovrebbe essere la più feroce delle critiche, ovvero il fatto che “prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda questo è forse uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità”.

Contro questa deriva, Di Cesare intende salvare lo spirito del pensiero di Agamben che avrebbe mostrato negli ultimi decenni “la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato”. In tal senso, il proposito esplicito è quello di “salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva”.

È curioso notare che queste considerazioni, anche quando sono condivisibili, sembrano dare per scontato che sul Covid Agamben abbia preso una deriva aliena dal resto del suo pensiero. A me pare, invece, che le posizioni agambeniane sul Covid siano in realtà l’implicazione più coerente di tutto il suo percorso.

Per capirlo è doveroso riprendere alcune tesi di Agamben, a partire dalla sua opera più famosa, Homo sacer (Einaudi 1995). Come è noto, qui Agamben effettua una rilettura della sovranità a partire dalla questione della nuda vita: la sovranità moderna è biopolitica poiché si esercita su e attraverso la vita meramente intesa in senso biologico (zoe) invece che sulla vita civile (bios). Questa idea, di larga ispirazione foucaultiana (con generosi innesti heideggeriani e arendtiani) porta alla notoria tesi secondo cui il campo di concentramento nazista sarebbe il paradigma fondamentale della natura biopolitica della sovranità nella modernità. Nel campo di concentramento, infatti, si coagula la sospensione dello stato di diritto (stato di eccezione) e la riduzione delle persone a nuda vita. Questa condizione, lungi dall’essere un monstrum alieno dalla storia costituisce la verità scomoda del biopotere moderno. A parte l’esemplare supremo del campo di concentramento questa natura biopolitica sarebbe visibile, secondo Agamben, già nell’habeas corpus, ovvero nella prima dichiarazione di diritti individuali su cui poi si incardina la modernità.

Dovrebbe ora risultare chiaro perché Agamben abbia sostenuto le sue tesi ormai notorie sul Covid. Non gli deve essere sembrato vero di poter trovare in vita e di fronte agli occhi la prova palese della verità da lui anticipata: la natura biopolitica della sovranità (ovvero la natura di un potere che si occupa innanzitutto della vita e del corpo dei cittadini) che nel farlo si determina in stato di eccezione sospendendo le garanzie costituzionali. Il lockdown pandemico, quindi, sarebbe uno stato di eccezione dal vivo, un sistema concentrazionario basato sulla (presunta) tutela della mera vita biologica, con la sospensione della vita politica. A questo aggiungiamoci un po’ di complotto facile che deriva dal sospetto di vedere a braccetto sapere (biomedico) e potere (biopolitico) e il quadro è fatto.

Non voglio qui fermarmi sulla sostanza di queste affermazioni su cui molto è già stato detto. Credo, invece, sia più pertinente provare a rispondere all’invito posto da Di Cesare, poiché solo rispondendo al suo dubbio si può capire se il pensiero di Agamben vada salvato da Agamben stesso. In breve, proviamo a chiederci, come ha fatto Di Cesare stessa, perché Agamben non si sia corretto ammettendo di aver preso una cantonata. Il perché va ricercato non tanto in una vera o presunta motivazione psicologica, cioè nell’umana incapacità di non ammettere l’errore o nel narcisismo ieratico in cui Agamben indulge (come altri filosofi). Piuttosto, il perché va ricercato nella stessa filosofia agambeniana che, nel denunciare il dispositivo biopolitico del Covid, Agamben sembra aver seguito molto coerentemente.

Per capirlo è utile riprendere un libretto (Signatura rerum. Sul metodo, Boringheri 2008) poco considerato anche tra gli adepti. In questa opera Agamben risponde molto onestamente a perplessità sulla sua metodologia genealogica. Il primo capitolo è dedicato alla questione del paradigma. Nell’uso agambeniano, il paradigma è l’emblema di un’epoca (in tal senso il campo di concentramento è paradigmatico della modernità) poiché ne rivela in sintesi la realtà in un’immagine auto-contenuta. Ma non è solo questo perché, nella visione agambeniana, il paradigma è anche qualcosa interno alla struttura stessa del fenomeno che rivela.

“Se ci si chiede, infine, se la paradigmaticità risieda nelle cose o nella mente del ricercatore, la mia risposta è che la domanda non ha senso. L’intellegibilità, che è in questione nel paradigma, ha carattere ontologico, non si riferisce al rapporto cognitivo fra un soggetto e un oggetto, ma all’essere” (Signatura rerum, p. 34). Ciò equivale a dire che a coloro che eventualmente chiedessero da dove Agamben abbia preso le sue tesi e come siano verificabili, Agamben si sentirebbe giustificato nel rispondere di averle prese dall’essere stesso.

Il secondo capitolo è dedicato invece alla tradizione delle segnature. Termine dalla storia complessa che attraversa medicina, teoria dei sacramenti, scienza premoderna, le segnature sono quelle iscrizioni nelle cose che sono anche somiglianze delle cose. In tal senso, le segnature sono una forma di linguaggio che, lungi dall’essere un mero rimando ad altro fuori da sé, si costituisce come un insieme di iscrizioni non meramente linguistiche. Si tratta infatti di segni che fanno parte del reale e in quanto tale ne rendono possibile la dicibilità (per chi li capisce) e ne innervano di senso il tessuto.

Cos’hanno in comune paradigmi e segnature? Apparentemente l’essere degli strumenti di analisi in cui il tutto è racchiuso in una formula. Ma non si tratta solo di questo perché la pretesa di Agamben è più semplice e impegnativa allo stesso tempo. Ciò che paradigmi e segnature hanno più fondamentalmente in comune è il loro essere nelle cose, come direbbe Agamben, il loro essere ontologicamente tali. Il parlare di paradigmi e segnature, quindi, permette ad Agamben di sentirsi svincolato dal bisogno di fornire prove poiché paradigmi e segnature sono entità concettuali e reali allo stesso tempo, simboli e parte della realtà allo stesso tempo.

Con questi concetti Agamben è alla ricerca di una chiave d’accesso al reale (i paradigmi che sono reali, le segnature che sono nelle cose) che sia anche parte del reale stesso. Se il paradigma e le segnature non cadono nella dicotomia soggetto-oggetto sono quindi esenti dal bisogno di prove perché sono, letteralmente, nelle cose stesse, anzi sono l’insieme delle cose stesse che parla e si dà.

Qui Agamben, che si vuole erede della genealogia foucaultiana e dello spirito decostruttivo della filosofia radicale francese della seconda metà del XX secolo, ritorna mago rinascimentale. Dalla messa in discussione radicale del senso comune, dell’empirismo, della presunzione scientista e della fiducia moderna si torna così direttamente alla premodernità. Non si tratta qui di deridere il sapere premoderno che tanto ha contributo alla cultura occidentale. Si tratta invece di riconoscere il trucco metodologico di farsi portavoce di una serie di strumenti concettuali e argomentativi (i paradigmi e le segnature) che non sono criticabili o falsificabili perché non sono nella bocca di Agamben in quanto singolo, ma lo sono solo perché sono nelle cose stesse. Memore dell’esempio heideggeriano, qui Agamben dimentica la fatica meta-epistemologica foucaultiana e si fa pastore dell’essere.

C’è un ultimo elemento utile per capire i tratti fondamentali del metodo agambeniano. In Stato di eccezione (Boringhieri 2003) Agamben ricostruisce, a partire dalla nota tesi di Carl Schmitt, l’origine extra-legale degli ordinamenti giuridici occidentali. L’idea, in nuce, è che l’origine del potere istituzionale e giuridico dipende da un’auctoritas extra-legale che si impone in virtù di qualità fattuali (carisma, forza, astuzia) non dicibili giuridicamente. Questa origine ambigua del potere si manifesta nella sua pienezza quando il potere sospende gli ordinamenti legali (secondo la famosa tesi di Schmitt, sovrano è colui che può decidere sullo stato di eccezione). Ma se è così, di nuovo, il sistema nazista risulta essere la quintessenza della sovranità occidentale poiché si esprime propriamente come stato di eccezione permanente. Agamben riscontra questa tendenza “attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni. Lo stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno stato d’eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto” (Stato di eccezione, p. 111).

Non mi interessa contestare qui la sostanza dell’iperbole. Mi preme piuttosto mostrare un procedimento tipicamente agambeniano che ci interessa per il tema in esame. La ricostruzione agambeniana cerca la radice, l’origine profonda, della sovranità occidentale nello scandalo della violenza iniziale che pone il diritto. Questa, secondo Agamben, è una tesi meta-storica, ovvero un’idea che viene prima di altri criteri (politici, morali, giuridici) e che in quanto tale è nella natura delle cose: né giusta, né sbagliata. Ma Agamben non si accontenta di fare una ricostruzione di un percorso globale. Bensì sente il bisogno di dare una curvatura critica, nello spirito propriamente genealogico che si prefigge. Questo è però particolarmente difficile, se non volutamente paradossale, poiché si tratta di denunciare qualcosa che è originario e in qualche misura necessario, senza potersi avvalere di strumenti morali (o moralistici!) che ovviamente non sono adeguati per valutare la natura di ciò che viene ben prima di loro (l’origine indicibile e vuota del potere). Per recuperare quindi la dimensione critica Agamben usa una strategia a effetto: la radicalizzazione della tesi. Radicalizzazione non vuol dire non accettare mediazioni o compromessi. In quest’ottica, invece, vuole dire estremizzare la diagnosi senza sfumature. Quindi, in due mosse, rendere il nazismo la verità emblematica della modernità, e, poi, dire che la situazione attuale presenta caratteri ancora più eccezionali di quella nazista. In questo modo ciò che sembrava essere una verità scomoda ma necessaria (l’origine indicibile della sovranità) diventa uno scandalo. Se prima Agamben induceva il lettore a sospendere il suo giudizio morale nell’analisi dell’origine della sovranità occidentale, ora il lettore viene aizzato dall’iperbole agambeniana a giudicare come moralmente inaccettabile la situazione attuale. Ma, questo è un trucco retorico perché, di fronte a questo procedimento, si dovrebbe poter giudicare moralmente anche l’origine, oppure rifiutarsi coerentemente, ma ancora più paradossalmente, di valutare moralmente il presente (e persino il passato nazista!).

In sintesi, il metodo agambeniano si dispiega in una coppia di concetti (paradigmi e segnature) e in una tendenza a riscontrare nella contemporaneità la massima (e perversa) espressione di un meccanismo già presente all’origine. Quindi, il metodo agambeniano ricostruisce le tendenze attuali secondo la logica del destino occidentale, e nel farlo rintraccia i sintomi nelle cose stesse, con poco margine per dubbi e riformulazioni. In questa logica l’avvento della pandemia non pare essere un accidente temporaneo ma la chiamata dell’apocalisse.

Per tornare all’articolo di Di Cesare, dovrebbe essere piuttosto chiaro che questi stilemi argomentativi, se applicati coerentemente, non permettono la revisione di una diagnosi (l’emergenza è una costruzione politica!) alla luce di nuove informazioni. Anzi, costringono Agamben alla furiosa negazione del senso comune e dello scientismo (biopolitico) proprio perché l’iperbole è l’unica arma critica rimasta.

Fa un certo effetto sentire che la voluta e palese paradossalità di Agamben sul Covid abbia portato Di Cesare (ed altri?) a dover ripiegare sul senso comune. Fa un certo effetto perché, invece, la congerie di paradossalità insistite e ancora più clamorose degli ultimi trent’anni non ha avuto lo stesso effetto. In conclusione, si può ipotizzare che il ravvedimento verso l’orrido senso comune che Di Cesare lamenta sia dovuto alla cogenza delle cose e della situazione, sicuramente e non apparentemente eccezionale, della pandemia. Se è così, però, le implicazioni per la rilevanza teorica e politica del pensiero di Agamben sono fosche. Infatti, emerge l’impressione che la libertà della radicalità della prospettiva agambeniana era dovuta alla percezione che questa (vera o presunta) radicalità in realtà non faceva alcuna differenza in pratica. Tutto ciò sembra suggerire che le denunce in stile agambeniano, in cui tutto ciò che non va è equiparato al nazismo, erano possibili proprio perché finivano per essere solo parole in libertà.



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